MONTE CUSTOS: Papa Alessandro VII il collezionista

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A dieci anni dalla mostra Alessandro VII il papa senese di Roma Moderna, svoltasi a Palazzo Pubblico e a Palazzo Chigi Zondadari di Siena nel 2001, ci è sembrato opportuno dedicare un articolo ad un personaggio che fu fondamentale anche per la storia di San Quirico e per l’arte in generale perché fra le altre cose, fu un collezionista sopraffino e un grande mecenate. Infatti,  prima di intraprendere il percorso curiale, conseguì tre lauree all’Università di Siena in diritto, filosofia e  teologia, acquisendo un vasto sapere che spaziava dalla letteratura alla filosofia, dalla storia locale, all’arte, all’architettura.

Fabio Chigi pare designato a diventare Papa prima della nascita; il profeta Malachia, Vescovo di Armagh, nella Prophetia Sancti Malachiae Archiepiscopi, de Summis Pontificibusfuturi  (XII Sec.) ossia nella composizione latina in cui sono indicati con un breve motto tutti i papi a venire,  lo definì, “il Custode del Monte” e il fatto che fosse nato a Siena, nipote del banchiere Agostino Chigi (1466-1520) e che avesse sei monti sullo stemma di famiglia, toglierà in seguito qualsiasi dubbio sul motivo di questo appellativo e sulla bontà della profezia del Vescovo, almeno per quanto riguarda questo papa.

Ma chi era Fabio Chigi veramente? Per scoprirlo prendiamoci un po di tempo perché ne vale la pena, e facciamoci aiutare dall’Enciclopedia Treccani:

Giuseppe Mazzuoli, Busto di papa Alessandro VII Chigi, c. 1680, Ariccia, Palazzo Chigi

ALESSANDRO VII, papa. – Nacque Fabio Chigi a Siena il 13 febbr. 1599, da Flavio, discendente del “magnifico” Agostino, e da Laura Marsili. Trascorsi a Siena in un fecondo fervore intellettuale gli anni della sua giovinezza, formandosi, specie alla scuola del letterato Celso Cittadini, quel gusto erudito e, pare da autodidatta, quel gusto artistico che impronteranno i suoi interessi di uomo di cultura, la sua bibliofilia e il suo splendido mecenatismo da pontefice, si trasferì nel dicembre 1626, compiuti gli studi giuridici, a Roma per iniziarvi la carriera curiale.

I rapporti con l’ambiente di Rota, con l’uditore e poi decano Clemente Merlini, ma anche i legami con i circoli colti romani, che egli seppe avviare ben presto, gli valsero nel 1629 la nomina a referendario delle Due Segnature da parte di Urbano VIII, che lo inviò di lì a poco come vice legato a Ferrara presso il cardinale Giulio Sacchetti. Con questo il Chigi si unì in duratura amicizia, importante per i riflessi e le conseguenze future. Dopo un quinquennio passato col Sacchetti, il Chigi non trovò presso il successore di lui, il cardinale G. B. Pallotta, quella concordanza di spirito che aveva resa fruttuosa la collaborazione per il governo della legazione, tanto da essere indotto nel 1634 al ritorno a Roma, dove fu ordinato sacerdote, nominato vescovo di Nardò (8 genn. 1635) ed inviato a Malta con l’incarico di inquisitore e di visitatore apostolico. Anche nell’isola per altri cinque anni, nei rapporti con i cavalieri, egli diede buona prova delle proprie doti amministrative e diplomatiche, finché le non buone condizioni di salute e le congiunte pressioni degli amici romani gli ottennero il richiamo e l’incarico più importante e impegnativo (giugno 1639) di nunzio a Colonia, dove il Chigi giunse nell’agosto.

Giovan Battista Gaulli. ritratto di Papa Alessandro VII c. 1667 , Baltimora, The Walters Art Museum

Il periodo della sua nunziatura in terra tedesca costituì per i complessi problemi che egli si trovò ad affrontare il vero banco di prova delle sue capacità e l’occasione che lo rese non solo profondo conoscitore delle principali questioni politico-ecclesiastiche che si agitavano in quegli anni quanto, per la sua duttilità e insieme per lo zelo di spiegato nell’applicazione autoritaria delle direttive pontificie e curiali, ben accetto agli ambienti romani, al cardinal nepote F. Barberini e all’Albizzi, assessore del S. Uffizio, come poi al pontefice Innocenzo X e al cardinale Spada, che doveva maggiormente favorirlo.

Fu infatti il Chigi, che ebbe parte negli affari della nunziatura di Bruxelles, prima col Pauli-Stravius, ma, soprattutto, con la nomina, nel 1642, a internunzio del nipote A. Bichi, a dover affrontare le questioni sollevate dalla prima condanna dell’Augustinus di Giansenio (con la bolla In eminenti del 1642, ma pubblicata nel 1643) e a partecipare alle prime vicende del grande contrasto dottrinale e disciplinare. Al quale in parte contribuì con la ristampa del documento romano inviatogli dall’Albizzi, che ne era stato fautore ed estensore: alla bolla non priva di errori tipografici egli apportò talune variazioni, nella data, da lui mutata dallo stile ab incarnatione, proprio della curia, in quello comune a nativitate, e nel testo, creando, però, quelle incongruenze formali che diedero facilmente adito ad accuse di alterazione e falsificazione della bolla e vennero sfruttate nelle successive polemiche da parte giansenista per inficiarne il valore.

Per quanto breve, questa prima esperienza e questo primo contatto con il problema giansenistico fu determinante per gli orientamenti futuri del nunzio, che dai gruppi antigiansenisti belgi, per i quali agi da tramite con la curia, ricevette suggerimenti e pressioni rimanendone chiaramente influenzato. Ma più, allora e in seguito, dai rapporti con i gesuiti, che ebbero gran parte nella sua formazione spirituale, in specie con il Van der Veken, per molti anni suo ascoltato consigliere e direttore di coscienza, trasse quei convincimenti che rimarranno alla base della sua azione di pontefice.

Nel maggior fervore delle discussioni, l’urgenza dei problemi politici sul turbato scacchiere europeo indusse la S. Sede a nominare, il 23 dic. 1643, il Chigi nunzio pontificio straordinario al congresso di Münster per la pace che venne detta di Vestfalia.

Una serie di rappresentanti papali aveva preceduto il Chigi, dal cardinale Marzio Ginetti, inviato nel 1636 al congresso di Colonia e rientrato deluso dopo quattro anni per l’ostilità francese, a F. M. Machiavelli e C. Rossetti, entrambi ancora invisi alla Francia. Se si preferì il Chigi, figura certo non ancora di primo piano nella diplomazia pontificia, e se si incontrò il gradimento francese (24 genn. 1644), le difficoltà erano ben lontane dall’essere appianate. Il 1644 trascorse per il Chigi nell’incertezza, dopo la morte di Urbano VIII e l’elezione di Innocenzo X (15 sett.), che egli personalmente non conosceva e sul quale furono esercitate pressioni da parte spagnola perché richiamasse il proprio rappresentante. Né in seguito, fino al dicembre 1649, dopo la stipulazione della “infame” pace di Münster, come il Chigi la definì, egli ebbe vita facile durante le logoranti fatiche del congresso, quale mediator pacisinsieme con l’ambasciatore veneziano A. Contarini. Ma le più gravi difficoltà del Chigi erano determinate, sopratutto, dal generale orientamento della S. Sede verso i problemi del mondo tedesco, orientamento che anche sotto Innocenzo X continuò la erronea politica dei Barberini (ne sono prova le successive istruzioni inviate ai rappresentanti pontifici e al Chigi, sostanzialmente e spesso letteralmente identiche): accanto alla “indifferenza” e alla neutralità tra le parti in contesa veniva raccomandata la salvaguardia intransigente degli interessi cattolici. In tal modo l’opera del Chigi, per quanto abile, dovette limitarsi, da una parte, a superare le complicazioni formali e protocollari dei plenipotenziari e a ricèrcare quelle formule di compromesso che permettessero la continuazione delle trattative, mentre, dall’altra, sul piano politico, dovette registrare il più clamoroso dei fallimenti. Il Chigi venne a trovarsi sempre più isolato tra le posizioni assolutamente politicizzate sia spagnole sia francesi; sostenendo il gruppo dei cattolici intransigenti, l’ambasciatore spagnolo conte di Peñaranda, il vescovo di Osnabrück F. W. de Wartenberg, il gesuita H. Wangnereck, si alienò lo schieramento dei cattolici “politici”, inclini alle maggiori concessioni in vista della conciliazione, rappresentato da Massimiliano di Baviera e dai consiglieri dell’imperatore Ferdinando III, tra i quali il Caramuel; nel grande vuoto politico creatosi in quegli anni intorno alla Chiesa romana la linea da lui patrocinata non poté neppure giovarsi del coperto contrasto tra Francia e Svezia. Perduto ogni aggancio con la realtà della situazione in ossequio alle rigide direttive della S. Sede, il Chigi assisté così senza potervi minimamente influire al cedimento completo degli imperiali e alla stipulazione di quelle clausole del trattato di pace che, con la restitutio alle condizioni del 1618, sanzionò uno stato di fatto, ma lese gravemente gli interessi cattolici, consacrando la scissione religiosa, il principio delle Chiese territoriali, la spoliazione dei beni ecclesiastici. Egli si rifiutò di firmare i protocolli, il 24 ott. 1648, e protestò ufficialmente contro le decisioni dei plenipotenziari dieci giorni dopo la chiusura del congresso. Pure si adoperò a che la curia non intervenisse violentemente contro le deliberazioni di pace e suggeri diverse modifiche alla bolla di protesta e di disconoscimento delle conclusioni di Vestfalia emanata da Innocenzo X nel 1651.

Gian Lorenzo Bernini, Busto di Papa Alessandro VII

Questo periodo di maneggi diplomatici doveva, però, risolversi in un altro elemento importante per la vita del Chigi, poiché contribuì non poco ad alienargli le iniziali simpatie francesi (il Mazzarino nel 1644 avrebbe compiuto qualche passo a Roma per il cardinalato del Chigi): il nunzio nel suo ruolo di moderatore ebbe più volte a contrastare le pretese francesi e ad attraversare quei piani francesi di saldo inserimento nel gioco politico europeo tra l’Impero esausto e la Spagna in decadenza, che dovevano, col Mazzarino, preparare la base per le affermazioni di supremazia di Luigi XIV. E il Mazzarino nella Istruzione per il conclave, dopo la morte di Innocenzo X, dichiarando la esclusiva francese per il Chigi, farà appunto risalire agli anni di Münster l’ostilità francese contro uno dei più probabili candidati alla tiara (confronta in Lettres du cardinai Mazarin…, a cura di A. Chéruel, VI, Paris 1890, pp. 343-352: “…per l’impiego che ha havuto in Münster, che è quello che l’ha fatto conoscere a noi per il più incapace di tutti gl’huomini per il governo della chiesa universale…” ecc.). Può anzi dirsi che nel periodo di Münster va vista la genesi lontana di molti orientamenti della politica di A. VII verso la Francia e della Francia verso il papato.

Da Münster il Chigi venne inviato ad Aquisgrana (dic. 1649 -ott. 1651) per i preliminari di pace tra Francia e Spagna che non ebbero seguito. Innocenzo X, che avrebbe voluto richiamarlo in Italia già nel 1649, fu indotto dai suggerimenti del cardinale Spada, esponente del gruppo di cardinali e prelati di curia più rigidi, in particolare sulla questione giansenistica, dietro il quale era l’Albizzi, a ordinarne il ritorno e a designarlo quale successore del cardinale G. G. Panciroli alla segreteria di stato, il 9 sett. 1651. Il mese successivo il Chigi rientrò a Roma, dopo dodici anni di lontananza.

Nei quattro anni in cui rimase nella nuova carica, sullo scorcio del pontificato pamphiliano, seppe inserirsi nella vita di curia e della corte pontificia, mantenendo un difficile equilibrio nei rapporti con i parenti del pontefice, tra cui la influente cognata di Innocenzo, Olimpia Maidalchini, e i cardinali Sacchetti e F. Barberini, allora in disgrazia presso il papa. Ma andrà, soprattutto, posta in evidenza del Chigi segretario di stato la parte avuta nella congregazione speciale cardinalizia per il giansenismo, istituita da Innocenzo X dopo la denunzia da parte dei vescovi francesi dell’opera di Giansemo, congregazione che, iniziatasi il 12 apr. 1651, portò alla promulgazione della bolla Cum occasione del 31 maggio 1653 e alla condanna di cinque proposizioni dell’Augustinus.

Nelle discussioni il ruolo di primo piano fu svolto ancora dall’Albizzi che tanta parte già aveva avuto nella elaborazione della In eminenti, il Chigi, che non aveva propriamente preparazione teologica, come nessun altro dei cardinali presenti (ché anzi, come sottolinea il Pallavicino, che della congregazione fu qualificatore, da essa furono esclusi deliberatamente i due cardinali teologi Maculani e de Lugo, domenicano e gesuita) partecipò alla discussioni dalla XIV congregazione in poi (11 apr. 1652), affiancandosi all’Albizzi e rappresentando insieme quell’esigenza disciplinare che andava sempre più facendosi strada nel dibattito teologico. Tale esigenza il Chigi espresse più volte al di fuori della congregazione nei colloqui con il Saint-Amour, rappresentante ufficiale di quella minoranza di vescovi francesi che si era schierata a favore della dottrina agostiniana, che si temeva sarebbe stata compromessa da una condanna dell’opera di Giansenio; e impersonò poi, a conclusione dei lavori della congregazione, quando fece propria presso il pontefice l’istanza dell’Albizzi di emanare una bolla e non un semplice decreto e quando, respinto da Innocenzo un primo abbozzo della bolla steso dal solo Albizzi ed elaboratone un secondo (insieme dal Chigi e dall’Albizzi), si trovò a dover vincere l’ultima resistenza del papa, incerto di fronte al grave passo che era sul punto di compiere. Determinante fu allora, in nome dell’autorità della S. Sede a difesa dell’ortodossia e del giudizio infallibile del pontefice nelle controversie di fede, l’opera di persuasione da lui svolta presso Innocenzo per la promulgazione di quell’atto che avrebbe poi avuto tante conseguenze durante il pontificato dello stesso Chigi.

Divenuto cardinale il 19 febbr. 1652 e vescovo di Imola il 13 maggio, il Chigi vide accresciuta la propria influenza in curia negli ultimi tempi del pontificato di Innocenzo X dopo la disgrazia del cardinal nepote Pamphili (già Astalli), i cui incarichi e le cui responsabilità passarono a lui, pur se l’abile Maidalchini prese a contrapporgli l’Azzolini, che, ottenuto il cardinalato nel 1654, pareva destinato a succedergli nella segreteria di stato. Ma la lunga malattia di Innocenzo e la sua morte, il 7 genn. 1655 lasciarono sostanzialmente immutata nel suo prestigio la posizione del Chigi.

 

Il conclave, iniziatosi il 18 gennaio, vide un fatto che da più pontificati non si verificava nella vita della Chiesa, la mancanza, cioè, di un cardinale nepote che impersonasse la politica del papato precedente e condizionasse in certo modo, per aderenze e legami con cardinali eletti dallo zio pontefice, l’elezione del successore. Le coloriture politiche, però, rimanevano quelle tradizionali: il gruppo dei cardinali spagnoli faceva capo ai due medicei, Carlo, decano del S. Collegio, e Giancarlo; il gruppo “francese” era guidato da R. d’Este e da A. Barberini. A parte erano il gruppo dei cardinali anziani, creati da Urbano VIII, controllato da F. Barberini, e il gruppo dei cardinali di Innocenzo, lo “squadrone volante”,che contava tra gli altri l’Albizzi, l’Azzolini e l’Ottoboni. Il candidato più probabile fu, in un primo tempo, il Sacchetti, che, pur sostenuto dai “francesi”, dai “barberiniani” e dai “volanti”,non raggiunse, per l’ostilità spagnola, più di trentasei voti sui quarantaquattro necessari all’elezione. Al Chigi, cui andavano simpatie da diversi settori, si opponevano l’esclusiva non pubblica del Mazzarino e l’ostilità dei cardinali anziani, contrari a un candidato appena cinquantaseienne.

La situazione si protrasse fin quando il Sacchetti, accortosi che parte dei voti controllati dal Barberini sarebbero andati al Rapaccioli, fu indotto a richiedere al Mazzarino il ritiro dell’esclusiva per il Chigi. La risposta francese del 4 marzo 1655,per quanto non annullasse le riserve sulla persona del Chigi, ne permetteva l’elezione il 7 aprile successivo con venticinque voti più trentanove di accessus. Egli si chiamò A.VII a ricordo, come disse, del terzo di tal nome.

Un esame delle principali vicende del pontificato di A. dovrà tener presenti i motivi essenziali già delineati della sua personalità: formatosi nella vita della diplomazia e della curia, buon esecutore e interprete di quegli orientamenti e di quegli interessi profondamente strutturati nel centro del cattolicesimo, A. nella sua azione religiosa e politica mancò di una decisa volontà accentratrice e tese piuttosto a vedere le questioni quale risultato di discussioni e consigli: donde nel suo pontificato una ripresa delle attività delle congregazioni, smorzata nei decenni precedenti, e addirittura il ripristino di alcune congregazioni, come quelle della Visita e degli Sgravi, istituite da Clemente VIII e poi abolite; e l’importanza che assunse il gruppo dei suoi intimi e consiglieri, l’Albizzi, il Pallavicino, che egli creò cardinale, il Bona, ecc. Dal che derivò talvolta un’oscillazione e un’incertezza nelle decisioni e certo disinteresse nella trattazione diretta degli affari da parte del pontefice, che andò accentuando quell’amore per la quiete appartata, per la meditazione e i colloqui con i suoi collaboratori, espressione di un gusto culturale umanistico e di tendenze ascetiche che agivano profondamente nella sua formazione. Pure numerosi momenti del papato di A., frutto di un intervento personale del pontefice o dei suggerimenti del suo entourage, rappresentano punti nodali nella vita religiosa, ecclesiastica e politica della Chiesa a metà ‘600, tali da influire sui pontificati successivi, da perdurare – almeno alcuni – sino alla metà del sec. XVIII, e comunque da contribuire esemplarmente alla costruzione di quell’edificio organizzativo e disciplinare della Chiesa postridentina, che A. sentì in tutta la sua complessità.

Ad A. pontefice si presentò immediatamente e più grave che negli anni precedenti il problema del giansenismo, questa volta travalicato dai Paesi Bassi alla Francia.

La Cum occasione aveva originato una damorosa discussione sul senso da attribuire alle cinque proposizioni condannate e Arnauld aveva avanzata la distinzione, divenuta famosa, tra la questione di diritto e quella di fatto, negando la presenza delle cinque proposizioni condannate in Giansenio, o che esse fossero state condannate nel senso di Giansenio, ed aveva elaborato sulla quaestio facti la teoria del “silenzio rispettoso”, cioè di un’ubbidienza puramente disciplinare ed esteriore alla condanna della S. Sede, di contro agli antigiansenisti, che reclamavano la piena accettazione e la sottoscrizione di fede di un formulano. Innocenzo X aveva risposto con vaghe ammonizioni, ma da A., che tanto si era adoperato per la promulgazione della bolla, era da aspettarsi un intervento ben più deciso.

Maturò così, anche per le pressioni dell’Albizzi, un nuovo documento, la bolla Ad sanctam beati Petri Sedem del 16 ott. 1656 (ma decisa già nel mese di aprile), in cui A., confermando la Cum occasione, attestò, come intervenuto alle discussioni sulle cinque proposizioni gianseniane, la cura con cui l’esame era stato condotto e dichiarò le cinque proposizioni estratte dall’Augustinus e condannate nel senso inteso dall’autore.

La rinnovata condanna papale, pur se accettata dall’Assemblea del clero francese del 1656-57,che impose accanto all’accettazione della bolla la segnatura di un formulano, non solo non risolse la situazione, ma l’aggravò, poiché la discussione dal problema giansenistico venne spostata a quello ben più ampio della estensione della infallibilità della Chiesa e del pontefice sulle questioni di fatto, per l’affermazione di A. intesa in tal senso, che incontrò una irriducibile opposizione nei settori filogiansenisti e, ancor più, gallicani del clero e delle magistrature francesi. La bolla Ad sanctam, che non fu per questo registrata, acquistò in tal modo, per l’interpretazione di cui fu oggetto, un valore che trascende l’episodio da cui essa era stata originata.

Gian Lorenzo Bernini, Busto Papa Alessandro VII

Falliti tutti i tentativi di pacificazione religiosa e imposta più duramente dal re la segnatura del formulano (1664), Luigi chiese ad A. una nuova presa di posizione. A. emanò allora, il 15 febbr. 1665, la bolla Regiminis apostolici, con la quale ribadì le due bolle del 1653 e del 1656 e prescrisse a tutti gli ecclesiastici la sottoscrizione di un formulano analogo nella sostanza a quello presentato dall’Assemblea del clero del 1657. La registrazione della bolla voluta questa volta dal re non fu in grado di spezzare il fronte degli oppositori: la resistenza fu impersonata da Nicole e dai quattro vescovi di Alet, Beauvais, Angers e Pamiers, che, nel riacutizzarsi violento della questione di fatto, negarono la infallibilità della Chiesa in materia e dichiararono la sottoscrizione del formulano un puro atto di rispetto e di disciplina verso l’affermazione del pontefice. Condannato il Mandement dei quattro vescovi (18 genn. 1667), A. decise di portare a giudizio dinanzi a nove confratelli francesi, come da lui delegati, i disobbedienti. La sua morte, il 22 maggio, troncò quest’ultima e più dura fase del contrasto. Spetterà al successore di A., Clemente IX Rospigliosi, che era stato segretario di stato di papa Chigi, abbandonare la linea di assoluta intransigenza e tentare quella pacificazione degli animi che, con qualche cedimento e compromesso da parte della S. Sede, culminò nella cosiddetta pace clementina del 1669.

Sul problema del giansenismo il pontificato di A. si chiudeva così con un bilancio negativo: le chiare prese di posizione pontificie non solo non erano state in grado di vincere prevedibili resistenze, ma avevano provocato e ninvigorito quegli orientamenti gallicani della Sorbona e del Parlamento di Parigi (condannati da A. nel 1665 con una dura bolla Cum ad aures, ispirata dal Pallavicino e dall’Albizzi), su cui, contro i successori di A., avrebbe fatto leva l’assolutismo di Luigi XIV. Ma, d’altra parte, con la Regiminis apostolici, A., cedendo alle pressioni di Luigi, dimentico questa volta di rivendicazioni gallicane, realizzò un fatto nuovo nell’atteggiamento della Chiesa riguardo al giansenismo e compì un gesto di estrema importanza per il futuro: legandosi nella lotta contro il giansenismo alla monarchia francese, dopo che questa aveva fatto valere con gli avvenimenti politici del 1662-64 (v. oltre) il suo intervento imperioso sul papato, sottrasse l’iniziativa alla S. Sede e fece travalicare definitivamente la controversia sia religiosa sia disciplinare dall’ambito ecclesiastico nel settore politico; ma, ponendo le premesse di una più stretta convergenza e intesa tra Roma e Francia intorno alla questione giansenistica, che diverrà operante, dopo le più recise affermazioni del programma gallicano, negli ultimi tempi di regno di Luigi XIV, configurò di lontano lo schema entro cui si svolse ampia parte delle vicende della Chiesa francese ancien régime.

Alla questione giansenista si accompagnò, durante il pontificato di A., un vasto dibattito dottrinale nel settore della teologia morale, contro gli eccessi del probabilismo diffusosi nella Chiesa nel corso della prima metà del sec. XVII. L’insorgenza di rigorismo, quale reazione, favorita anche da tendenze giansenisteggianti, antigesuitiche e, più generalmente, agostiniane, si configurò come opposizione netta al lassismo e trovò, negli ultimi anni del papato di A., il suo sbocco in una serie di decisioni pontificie.

Già nel 1656 A. aveva intimato al capitolo generale dei domenicani riunito a Roma di opporsi alle nuove opinioni morali (v. Ceyssens, Le cardinal Jean Bona…, p. 100) e pareva orientato per la pubblicazione di una bolla contro il probabilismo. Ne sarebbe stato distolto dal Pallavicino, che l’avrebbe persuaso a non procedere ad una condanna generale, ma a colpire singole proposizioni lassiste, già denunziate o condannate in parte dall’università di Lovanio e da vescovi belgi e francesi: da qui un primo decreto del S. Uffizio del 24 sett. 1665 includente ventotto proposizioni (senza i nomi degli autori, ma alcune del Guimenius, Caramuel, Amico) e un secondo del 18 maggio 1666 includente altre diciassette proposizioni (alcune da Sanchez e Diana), entrambi opere, come si suppone, del Bona e dell’allora membro e presto assessore del S.Uffizio, poi cardinale, Casanate. Le condanne di A. prelusero a quella emanata per altre sessantacinque proposizioni lassiste, in modo analogo, nel 1679, da Innocenzo XI; è certo che in questo senso esse furono fondamentali per lo sforzo di elaborazione della teologia morale nel corso del ‘600.

Saranno da menzionare infine due altri particolari documenti, notevoli per il loro significato, che mostrano come A. fosse attento agli sviluppi del dibattito dottrinale, ma, al tempo stesso, incline a far maturare quei motivi della tradizione che apparivano ancora discussi. Il primo, riguardante la pietà mariana, suonava risposta alle pressioni spagnole per la definizione del carattere del culto dell’Immacolata Concezione. Conscio dell’antichità e della diffusione di tale opinione e della sua accettabiità nella Chiesa cattolica, come gli veniva suggerito anche dal Pallavicino, A. emanò la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarumdell’8 dic. 1661, in cui rinnovò i decreti favorevoli di Sisto IV, Paolo V e Gregorio XV, ma proibì, in attesa di una decisione della S. Sede, di incolpare coloro che sostenevano l’opinione contraria di eresia o peccato mortale. È l’ultimo importante atto pontificio prima della prescrizione generale della celebrazione della festa della Concezione in tutta la Chiesa ad opera di Clemente XI (1708). Esso per il suo carattere disciplinare sopì ogni discussione fino alla celebre polemica muratoriana contro il “voto sanguinano” apertasi intorno alla metà del ‘700.

Con il secondo documento, il decreto sull’attrizione del 5 maggio 1667, A. rispose alla controversia, scoppiata nei Paesi Bassi, in particolare a Gand e Lovanio, ma sentita fortemente negli ambienti ecclesiastici con cura d’anime, circa la natura dell’attrizione sufficiente per l’assoluzione sacramentale. Anche per questo documento singolare fu la partecipazione del Pallavicino, al quale, come al pontefice, si erano rivolti i curati “contrizionisti” di Gand. Personalmente antiattrizionista, come, del resto, lo stesso A., ma consapevole della estrema diffusione dell’attrizionismo nel cattolicesimo, il Pallavicino, insieme con il Bona, influì molto probabilmente sul decreto pontificio del 1667, che A. firmò sul suo letto di morte e che impose silenzio alle parti in attesa di una decisione della Chiesa. Questa mancò, ma il documento rimase tra i termini ineliminabili delle discussioni successive: ancora un secolo dopo, s. Alfonso Maria de’ Liguori doveva rifarsi al decreto alessandrino.

L’uso dei decreti e l’attività della Congregazione dell’Indice e di quella del S. Uffizio non conobbero sosta col pontificato di A.: per l’Indice anzi A. fece approntare una nuova edizione nel 1664 che completò l’Indice clementino del 1596, raccogliendo le proibizioni e le condanne di libri dal 1601 al 1662-63, e riordinando non solo un imponente materiale che si era venuto accumulando quanto le norme consacrate da una lunga pratica dopo i dettami del Tridentino e l’istruzione dementina. L’iIndice alessandrino con graduali ampliamenti conobbe numerose edizioni per tutto il secolo e oltre (anche se le edizioni del 1681, 1683, 1685, ecc., vanno sotto il nome di Innocenzo XI) e fu sostituito soltanto nel 1758,sotto il pontificato di Benedetto XIV, dal nuovo Indice curato dal domenicano Ricchini.

Alla durezza di certe decisioni, però, fanno riscontro concessioni maggiori in altri settori, specie in quello missionario, a cui A. fu particolarmente sensibile e che conobbe un intenso sviluppo negli anni del suo pontificato.

Con A. venne regolata, almeno temporaneamente (23 marzo 1656), la questione dei riti cinesi, condannati un decennio prima da Innocenzo X. A., diversamente dal precedessore, si mostrò disposto ad accogliere il punto di vista dei missionari gesuiti e tollerò un’interpretazione più larga, permettendo, secundum exposita, ai cristiani della Cina l’omaggio a Confucio, il culto degli antenati e alcune altre cerimonie quale espressione di un culto soltanto civile e politico e non religioso. Il decreto alessandrino fu accolto dai missionari durante le cosiddette conferenze di Canton del 1668: esso, però, lasciando aperta la discussione sul vero carattere dei riti, segnò un punto di compromesso tra le opposte tendenze e diede adito, nonostante il decreto di Clemente IX del 13 nov. 1669, che confermò i due documenti precedenti tra loro in qualche modo discordanti, alle ulteriori discussioni che si riaprirono violentemente Sotto Innocenzo XII e sotto Clemente XI, soprattutto nel primo decennio del ‘700. Ma, ancora nell’Estremo Oriente, la decisione maturata con il pontificato di A. di creare una gerarchia missionaria (1658), inviando tre vicari apostolici di nazionalità francese, e di spezzare il monopolio portoghese nel settore, fu estremamente significativa per il futuro, poiché ripropose in termini concreti la possibilità di formazione di un clero indigeno, sino allora rimasta puramente teorica.

Tale possibilità riportò in discussione una importante questione, dibattuta già sotto Paolo V, ma di cui si era perso il ricordo, cioè dell’uso del cinese, come di altre lingue orientali, nella liturgia e per le traduzioni della Scrittura. Con il privilegio Romanae sedis antistes del 27 giugno 1615 Paolo V aveva permesso l’uso: ma il privilegio non aveva avuto attuazione per la mancanza di un clero indigeno. A., ignorando la decisione del predecessore, nella nuova situazione di fatto venutasi a creare sollevò il problema, incaricandone una speciale congregazione, e personalmente si mostrò favorevolmente disposto, sebbene con-dannasse poi, con breve del 12 genn. 1661, recisamente, attraverso la traduzione francese del Messale (del Voisin), ogni eventuale traduzione nelle lingue europee dei testi liturgici e della Scrittura. Se l’orientamento papale trovò consensi nella congregazione da parte dell’Albrizzi, dell’Allacci, del Rancati e una apertura possibilistica da parte dell’Albizzi, la maggioranza fu di parere contrario e giudicò immatura qualsiasi decisione. A. accolse il parere negativo della congregazione, ma con il breve Super Cathedram del 9 sett. 1659 dispensò per un settennio, poi continuamente rinnovato, i missionari indigeni dalla lettura di parte dell’Uffizio in latino, che venne sostituita da preghiere in cinese, e delimitò temporaneamente la questione che doveva, come altre, riaprirsi in seguito.

Gian Lorenzo Bernini, tomba di Alessandro VII, Vaticano

Dove più chiaramente risaltano alcune intrinseche debolezze del pontificato di A. è al di fuori dell’azione ecclesiastica e di politica ecclesiastica, nella quale, se si sono notate pressioni diverse esercitate secondo i momenti dalle tendenze di curia sul pontefice (tipici, a questo proposito, gli interventi del Pallavicino e dell’Albizzi per la lotta contro il giansenismo e il gallicanesimo, del Bona e del Casanate per la condanna del lassismo), pure è stato possibile delineare un orientamento non privo di coerenza e di energia e una preoccupazione costante di intervenire e di dare risposta alle maggiori questioni successivamente affrontate: con una vocazione autoritaria che in A. si accompagnò per lo più alla ricerca di un equilibrio armonizzatore tra i partiti curiali, che erano insieme espressione di più vaste discussioni nel mondo cattolico. Nell’azione più propriamente politica, che può sintetizzarsi nei rapporti con la Francia, si colgono i limiti, oltre che di una personalità, di un intero momento storico della Chiesa.

Si è accennato all’inimicizia del Mazzarino nei riguardi di A., ma converrà aggiungere come essa, motivata dall’ostilità francese verso un atteggiamento politico che si sforzava di essere imparziale e veniva interpretato come filospagnolo (e di appena velate simpatie filospagnole si dovrà parlare per A., che in questo seguì la linea politica di Innocenzo X), in un primo tempo si sia articolata intorno al caso del cardinale di Retz, il grande nemico politico del Mazzarino, che, dopo lunghe e complicate trattative, A. privò dell’arcivescovado di Parigi e, sia pure salvando il principio delle immunità ecclesiastiche, sacrificò al risentimento del potente ministro (1662). Ma A. accentuò la frattura con la Francia quando, preoccupato per il pro-trarsi della guerra franco-spagnola, volle interporsi come mediatore tra i contendenti, con un breve diretto all’Assemblea del clero del 1655-56, nel quale auspicò una pronta pacificazione e biasimò i tentativi che i due regni andavano facendo per stipulare un’alleanza con Cromwell. L’intervento papale non solo non impedì che la Francia raggiungesse il suo intento, ma spinse il Mazzarino a reagire e a porre le basi di più ampi contrasti con Roma, su due fronti diversi, nella stessa Francia sul piano della politica ecclesiastica, quando egli in funzione antipapale prese a blandire e a sviluppare intorno al tronco giansenistico i motivi gallicani, e in Italia, dove seppe abilmente soffiare sul fuoco delle rivendicazioni di Parma e Modena contro la S. Sede per le questioni di Castro e Comacchio.

La stipulazione, a insaputa del pontefice, della pace dei Pirenei tra Francia e Spagna (7 nov. 1659), con le clausole imposte dal Mazzarino circa le pretese dei duchi di Parma e Modena contro il pontefice, e il ritardo della comunicazione alla S. Sede (11 genn. 1660) sanzionarono quella decadenza politica del papato, di cui A. era stato diretto testimone a Münster.

A. rispose alle pressioni francesi su Parma incamerando Castro nel concistoro del 20 dic. 1660; ma trovò nuovi ostacoli nella sua politica verso la Francia, nonostante concessioni e cedimenti da parte sua specie sul piano della provvista dei vescovadi, quando, aumentata la pressione turca nei Balcani ai danni dell’Impero, si pose con impegno a organizzare una lega cattolica, riprendendo il programma abbozzato nel 1657 in aiuto di Venezia, alla quale egli aveva inviato la flotta pontificia e dalla quale in cambio aveva ottenuto il ritorno dei gesuiti dopo il cinquantennale esilio dal tempo dell’Interdetto. L’aspirazione papale si scontrò allora con le ambizioni di Luigi XIV in terra tedesca, dove ai piani francesi tornava utile un indebolimento dell’Impero e perciò stesso il mantenimento del peso turco ai confini orientali. Sia l’inviato straordinario francese d’Aubeville sia il ministro Créqui, giunti a Roma nel corso del 1662 per la stipulazione di una lega che non si aveva nessuna intenzione di concludere, compromisero in ogni modo volutamente i negoziati e, insieme, i rapporti tra Francia e Roma. Gli incidenti del 20 ag. 1662, provocati dalla guardia corsa pontificia contro il personale dell’ambasciata francese, in un’atmosfera già tesa determinarono, con l’esplosione di una questione di prestigio, la reazione violentissima della Francia, che costò ad A. una serie di gravi umiliazioni.

A. si trovò isolato: né l’Impero né la Spagna, impegnata con la guerra contro il Portogallo, potevano intervenire; il contegno degli stati italiani fu timoroso e ambiguo, se non ostile come Modena e Parma. Usurpati Avignone e il Contado venassino dalla Francia e votati per le pressioni di Luigi XIV dalla Sorbona i sei articoli gallicani del 1663, ad A. non restò, di fronte ad una minaccia armata, che piegarsi: col trattato di Pisa del 12 febbr. 1664 disincamerò Castro, concedendo una dilazione di Otto anni al duca di Parma, e versò per Comacchio un’indennità al duca di Modena, creando così più solida base all’influenza francese in Italia; si vide Costretto ad altri gesti di riparazione, erigendo una piramide con scritta infamante per i Corsi sul luogo del tumulto e inviando in Francia per le scuse formali il nipote cardinale Flavio Chigi. Potè solo esprimere, extrema ratio, la propria protesta in una bolla rimasta segreta.

L’episodio assume, nel più generale quadro degli avvenimenti europei, un significato e un’importanza singolari: in Europa, travolti gli schemi e le dimensioni politiche e spirituali create dalle guerre di religione e consolidatosi in Francia, dopo lunghe crisi, ultime quelle della Fronda, l’assolutismo monarchico, era finito quell’equilibrio vario tra le potenze che aveva caratterizzato la prima metà del ‘600 e permesso alla Chiesa di esercitare la tradizionale funzione mediatrice, a salvaguardia dei propri interessi spirituali e politici; esso si era spostato a favore della Francia e i frutti già amari proprio A. aveva raccolto durante la pace di Vestfalia. Ma nel cambiamento dei rapporti di forza giocava anche, determinante, l’ambivalenza insita nella personalità stessa del pontefice, rigidissimo nella difesa dei principi e, al tempo stesso, legato ad una scuola di alta diplomazia piuttosto che dotato di vero intuito politico, incapace di elaborare immediatamente prospettive e linee nuove della politica pontificia e di inserirsi a pieno nella nuova fase politica europea, e portato, per carattere e lunga consuetudine, a quella cautela e a quegli orientamenti di compromesso che, di fronte a decise affermazioni di potenza, non potevano non risolversi nella più completa cedevolezza. Per la S. Sede, e con la persona di A., tramontava davvero un’ epoca – non senza crisi – e si iniziava una fase di alterni contrasti con la Francia durati sino alla fine del secolo.

Nella politica interna, nel governo cioè dello Stato pontificio, possiamo rintracciare tendenze analoghe a quelle già riscontrate. Qui, se mai, è avvertibile un’accentuazione maggiore da parte del pontefice a servirsi di collaboratori preposti alle diverse congregazioni: così il cardinale G. Rospigliosi, che aveva nelle mani gli affari esteri, venne chiamato alla segreteria della Congregazione di stato, che, istituita da Urbano VIII e retta già dal Panciroli e dallo stesso Chigi, assunse in tal modo la fisionomia rimastale nei secoli successivi; il cardinale Corrado datano presiedette la congregazione dell’Immunità; il Sacchetti seguitò ad avere importanza in diverse congregazioni e fu notevole il contributo da lui dato in quella dell’Abbondanza, intorno al 1656,dopo la pestilenza che devastò Roma e la Campagna, arrecando per la diminuita mano d’opera gravi danni all’agricoltura già in decadenza. Un qualche peso nella vita della curia e dello stato ebbero anche i più stretti parenti del papa. Solo ad un anno dall’assunzione al pontificato A. si risolse a far venire a Roma i congiunti, dopo che sembrò opportuno non abbandonare una tradizione importante anche per i suoi riflessi politici. Il fratello di A., Mario, fu sovraintendente alla Annona e giudice di Borgo; il nipote Flavio divenne cardinale nepote e ottenne rendite ecclesiastiche che raggiunsero i 100.000 scudi; il nipote Agostino ricevette splendidi possedimenti e il palazzo romano e sposò una Borghese. Ma questi e altri, come A. Bichi che fu grandemente beneficato, pur perpetuando il nepotismo nella corte papale, ebbero poca influenza sul pontefice, neppure paragonabile ai tempi dei Barberini o a quelli più vicini di Innocenzo X.

Dove A. lasciò orma profonda fu nelle riforme degli uffici di curia di cui egli aveva direttamente potuto constatare la venalità e gli abusi, sotto il papato Pamphili. Riordinò la cancelleria, raccogliendo le Regulae, ordinationes et constitutiones cancellariae Apostolicae, Romae 1655,e emanò quelle disposizioni per la carriera prelatizia che diedero ad essa la sua forma moderna.

A. cercò inoltre, tra i suoi principali provvedimenti di politica interna, di risolvere in qualche modo la grave situazione finanziaria venutasi a creare nello stato sin dai primi del ‘600, con la decadenza dell’agricoltura, il rigido sistema annonario, la diminuzione del reddito pubblico e l’aumento pauroso del debito che la fastosa e dispendiosa politica dei Barberini aveva accentuato.

Succedendo a Innocenzo X, A. trovò quarantotto milioni di scudi di debito complessivo, per i prestiti e il pagamento degli interessi che assorbivano gran parte delle entrate. Apparsagli evidente l’impossibilità di un ulteriore aumento delle imposte già pesantissime, si risolse cosi, a parte i tentativi di più rigorosa economia, per un’importante riforma finanziaria riducendo l’interesse dei “luoghi di monte”, che erano il perno del sistema finanziario pontificio. Riscattò quelli vacabili e rimborsò, senza tener conto delle quotazioni, il valore nominale di quelli non vacabili, realizzando certamente un utile considerevole; ma il provvedimento scosse il credito su cui era fondato il sistema e provocò una diminuzione del valore dei luoghi. Il guadagno fu inghiottito presto dalle spese dell’aniministrazione, dalle costruzioni edilizie, alle quali A. diede grandissimo incremento, e soprattutto dal fatto che ovviamente rimase in piedi il vecchio sistema economico. Anzi A. continuò la prassi dei predecessori e nella ricerca di nuovi cespiti per le casse dello stato aumentò la tassa sul macinato, creò la privativa e l’appalto del tabacco (1655 e 1665) e mantenne il sistema annonario, rifiutandosi di prendere in considerazione quella liberalizzazione delle tratte delle granaglie che il Sacchetti gli suggerì quale rimedio alla grave crisi dell’agricoltura e del commercio nello stato. Il debito pubblico aumentò, tanto che nel 1670, a tre anni dalla morte di A., esso era salito a cinquantadue milioni.

Cagionevole di salute sin dalla giovinezza e sofferente di mal della pietra (per cui venne anche operato mentre era nunzio a Colonia), A. si aggravò nel corso del 1666: morì il 22 maggio 1667.

Il profilo di A. non sarebbe completo se non dessimo infine qualche cenno di quella che èstata definita la sua fisionomia spirituale e se non cercassimo di delineare un altro aspetto essenziale della sua personalità. Accanto alla componente organizzativa e disciplinare, più evidente e più compiutamente espressa in quegli anni di lotte dottrinali e politiche, è da vedere in A. la risonanza di motivi del tardo umanesimo, rivissuti più che nella consuetudine di comporre versi latini orazianamente atteggiati, nel mecenatismo artistico, nei rapporti eruditi e nella bibliofilia. Se la storia esterna di questi atteggiamenti di A. è nota almeno nelle sue grandi linee, ben poco si sa di quella interiore, per la limitata attenzione rivolta sino ad oggi alla vasta corrispondenza privata e alle carte e agli appunti personali del pontefice. Delle composizioni latine di A. si dirà brevemente: le Philomathi Musae iuveniles, Coloniae Ubiorum 1645, Antverpiae 1654, Parisiis 1656, Amstelaedami 1660, sono, pur nella finezza della imitazione letteraria che ammanta numerosi spunti biografici, poco più che il diletto di uno spirito colto, che anche nei momenti più duri, specie del soggiorno tedesco, amò rifugiarsi in quei “carmina animo deducta sereno”. Importante invece e significativo il mecenatismo artistico di A., che giunse ad assumere le forme di un vero e proprio rinnovamento urbanistico di qualche zona di Roma: dalla costruzione berniniana del colonnato di S. Pietro, dai lavori nell’interno della basilica, dalla costruzione della scala regia in Vaticano, della Zecca, di una parte dell’Archivio, all’ingrandimento del Quirinale, la cui galleria A. fece affrescare da Pietro da Cortona, alla sistemazione delle piazze del Pantheon e della Minerva, nella quale venne eretto l’obelisco berniniano dell’elefante, all’apertura di via del Corso, alla sistemazione della Sapienza, dove venne costituita la biblioteca che da lui fu detta Alessandrina (1667), ecc. E sovrano fastoso si mostrò A. nelle accoglienze tributate a Cristina di Svezia (1655) e intelligente mecenate nell’amore per la cultura e i libri e nella protezione concessa a studiosi e ad artisti, in anni forse tra i più ricchi dell’erudizione romana seicentesca, che vide insieme l’Allacci, l’Holstenio, il Kircher, l’Ughelli, Giano Nicio Eritreo, il Pallavicino, per non parlare, tra gli artisti, del Bernini. All’Holstenio A. affidò l’incarico di trasferire nella Vaticana (1657) i codici urbinati, contesi, dopo la morte dell’ultimo duca Francesco Maria II della Rovere, tra la comunità di Urbino e la confraternita del SS. Crocifisso della Grotta: e l’acquisto suggerito ad A. dal cardinal legato Luigi Omodei evitò che essi andassero dispersi. Ma A. dedicò cure attente soprattutto alla sua biblioteca personale, per i cui acquisti sembra abbia obbedito spesso ad uno schema preordinato: così operò una scelta tra i manoscritti senesi delle biblioteche di Pio II e Pio III Piccolomini, si procurò codici dalle biblioteche di due letterati senesi suoi amici, Celso Cittadini, che fu, come si è visto, suo maestro, e Federico Ubaldini; e altri codici acquistò in Germania, come forse gli importanti originali delle epistole del Melantone, e in Francia, o ricevette in dono. Molto resta da studiare, mancando ancora una ricerca precisa sulla formazione della biblioteca attraverso gli interessi di A., le note di sua mano apposte a numerosi manoscritti, appunti, lettere, ecc. Soltanto un timido avvio fu dato quando la Chigiana venne acquistata dallo stato italiano nel 1918 e donata poi nel 1922 alla Biblioteca Vaticana.

Questo fervore di cultura, d’altra parte, s’innestò armonicamente nella vena di una pietà autentica, alimentata in A. dalla quotidiana meditazione della Introduction à la vie dèvote Philothée di Francesco di Sales, che egli beatificò nel 1661 e canonizzò nel 1665. Già in una lettera notissima e diffusa anche in traduzione francese, diretta mentre era nunzio a Colonia, il 1 apr. 1642, al nipote A. Bichi, A. consigliava quale prototipo di vita spirituale (profondamente consentaneo al suo spirito aristocratico) l’insegnamento di Philotée: “Il ne vous persuade point l’austerité, ny la solitude des déserts, ny un genre de vie extraordinaire; mais une dévotion civile, noble, et temperée…”, (in append. a La bonne philosophie…, Paris 1658); e lo ricordava come esempio, ormai ventennale, proposto alla propria personale ricerca di perfezione cristiana. A quanto sappiamo A. divulgò in diverse operette, apparse anonime, i temi principali della pietà salesiana e dell’umanesimo devoto e improntata qua e là a questo (ma anche alla spiritualità gesuitica per il ricordo esplicito del Realino e del Coster) ci appare l’opuscolo La bonne philosophie et l’art de salut ou Institution de vivre parfaitement comprise en trois preceptes, par N. S. P. le Pape Alexandre VII, Et traduit de Latin en François par F.Martial Religieux Penitent du tiers Ordre de S. François, a Paris 1658,dove si giustappongono un’arte di ben morire, in quattordici meditazioni (la bonne philosophie) e un’arte di ben vivere delineata in tre precetti che ripercorrono le “tre vie”, purgativa, illuminativa e unitiva.

La meditazione della morte sembra essere stato un motivo della pietà barocca fortemente presente nell’animo di A., che amò tenere sempre sul suo tavolo, da pontefice, un cranio di marmo scolpito dal Bernini. Questi diede poi, in maniera mirabile, forma artistica a quel barocco trionfo della morte costituito dal sepolcro di A. in S. Pietro, che segna una svolta nella iconografia funebre del ‘600 (v. Mâle).

I precetti de L’ari de salut  indicano equilibratamente i doveri del vivere cristiano: accentuati quelli ascetico-penitenziali (meditazione quotidiana, contrizione dei peccati) e quelli devozionali (caratteristiche la lettura dei libri devoti, la comunione frequente, la devozione alla Vergine e all’Angelo custode). La parte finale, sulla conformità alla volontà divina, riconduce ad altri accenni espressi nella corrispondenza con il cappuccmo Carlo d’Arenberg (1642-52), analizzata dal Callaey, nella quale il motivo della sottomissione al volere di Dio trova perfetta rispondenza in quello della obbedienza alla Chiesa romana. Tale rapporto, se approfondito da ulteriori ricerche, varrebbe forse a mostrare dietro tanta parte dell’attività organizzativa e disciplinare di A. un’ispirazione più profonda e la presenza di una concezione della Chiesa motivata nella sua ricchezza spirituale.

 

 

 

Fonti e Bibl.: Tra le fonti, un diario di A. degli anni di Münster (1644-45) che è stato pubblicato dal Kybal, e tra gli Inediti, nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Fondo Chigi, O. IV, 58, un altro diario che inizia con l’agosto 1655; ancora nel Fondo Chigi, A. I. 8, diari del periodo da Colonia al pontificato; la corrispondenza, e due serie di mss. sempre nel Fondo Chigi riguardanti gli anni di pontificato, la prima, in nove volumi, di Scritture diverse concernenti molti e importanti negozi religiosi e politici del tempo di A. VII, e, la seconda, in quindici volumi, di Proposte e risposte di cifre in copia, dei nunzi apostolici, dei cardinali legati, di governatori e arcivescovi.

Per indicazioni sulla corrispondenza di A. e su altro materiale, estratti di lettere, ecc., v. Archivalia in Italia, a cura di G. Brom, II, Rome. Vaticaansche Bibliotheek, in Riìks Geschiedkundige Publicatiën, kleine serie 9, s-Gravenhage 1911, nn. 252, 272, 349, 351, 352; III, Rome. Ovenige Bibliotheken en Archieven, ibid., kleine serie 14, ibid. 1914, passim, e Bescheiden in Italië, a cura di O. I. Hoogewerff, III, ibid., kleine serie 17, ibid. 1917, passim. Ampio materiale ms. e archivistico utilizza L. v. Pastor, Storia dei Papi, XIV, 1, Roma 1932, pp. 311-538 (ma v. anche L. v. Ranke, Storia dei Papi, Firenze 1959, pp. 839 ss. e pp. 913 ss., note). In corso di pubblicazione La nunziatura di Fabio Chigi (16401651), a cura di V. Kybal e O. Incisa della Rocchetta, I, 1e 2, Roma 1943-46 (giunta finora al 1645); edito il carteggio con F. Barberini, F. Albizzi, Van der Veken e altri riguardante il giansenismo nei Paesi Bassi, La correspondance antijanséniste de Fabio Chigi nonce à Cologne plus tard pape A. VII, a cura di A. Legrand e L. Ceyssens, Bruxellee-Rome 1957 (con Bibl.); edito e regestato il carteggio con lo Stravius in Correspondance de Richard PauliStravius (163442), a cura di W. Brulez, Bruxelles-Rome 1955, passim ; della corrispondenza sporadiche indicazioni dà I. Ciampi, L’epistolario inedito di Fabio Chigi, poi papa A. VII, in Atti d. R. Acc. dei Lincei, Mem. della classe di scienze mor. stor. e filol., s. 3, I (1876-77), pp. 393-403; del carteggio con i Merlini dà notizia e pubblica parti A. Piccolomini, Carteggio inedito di Fabio Chigi, poi papa A. VII, in Bullett. senese di storia patria, XV (1908), pp. 3-31. Manca una monografia moderna su A.: fondamentale resta la biografia che di A. tracciò P. Sforza Pallavicino, Della vita di A. VII libri cinque…, voll. 2, Prato 1839-40. In particolare: per l’attività politica v.: A. v. Reumont, Fabio Chigi – Papst Alexander VII in Deutschland (16391651), in Zeitschrift des Aachener Geschichtsvereins, VII (1885), pp. 1-48; L. Schiavi, La mediazione di Roma e di Venezia nel Congresso di Münster per la pace di Vestphalia…, Bologna 1923; I. I. Poelhekke, De vrede van Münster,’s-Gravenhage 1948, passim; K. Repgen, Fabio Chigis Instruktion für den Westfälischen Friedenskongress. Ein Beitrag zum kurialen Instruktionswesen im Dreissigjährigen Knieg, in Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte, XLVIII (1953), pp. 79-104 e 104-116 (docc.); Id., Der päpstliche Protest gegen den Westfälischen Frieden und die Friedenspolirik Urbans VIII, in Histonisches Jahrbuch, LXXV (1956), pp. 94-122; H. Bücker, Der Nuntius Fabio Chigi (Papst Alexander VII) in Münster 16441649, nach seinen Briefen,Tagebüchern und Gedichten, Münster 1958 (con bibl.).

Per i problemi politico-religiosi: la lotta contro il giansenismo: oltre le lettere pubblicate ne La correspondance antijanséniste, cit., sono essenziali per l’inizio della vicenda e notizie sulla posizione di A. due documenti contemporanei, il Journal de Mr. de Saint Amour de ce qui s’est fait à Rome dans l’affaire des Cinq Propositions, s. l. 1662, passim e la relazione dell’Albizzi edita da A. Schill, Die officielle Relation des römischen Officiums über die Verurtheilung des Jansenismus, in Der Katholik, LXIII (1883), II, pp. 282-299, 363-381, 472-494; per un orientamento sugli avvenimenti successivi cfr. la voce Jansénisme (di I. Carreyre) in Dict. de Théol. Cath.,VIII, coll. 504-520; A. Gits, La foi ecclésiastique aux faits dogmatiques dans la théologie moderne, Louvain 1940, pp. 7-9 e passim, e L. Ceyssens, La publication, aux PaysBas,de la troisiéme bulle contre Jansénius (16561660), in Rev. d’Hist. ecclés., LIV, 1 (1959), pp. 478-506, 807-837 (seguita), in part. le pp. 478-487.

Per queste e per le altre questioni religioso-ecclesiastiche del pontificato di A., discussioni, condanne, ecc., un buon panorama offrono Fr. H. Reusch, Der Index der verbotenen Bücher, II, Bonn 1885, passim e I. v. Döllinger-Fr. H. Reusch, Geschichte der Moralstreitigkeiten in der römischkatholischen Kirche… I, Nördlingen 1889, passim. In particolare: per la bolla sul culto dell’Immacolata, R. Laurentin, L’action du SaintSiège par rapport au problème de l’Immaculée, in Virgo Immaculata, II, Roma 1956, pp. 1-99; per il decreto sull’attrizione, L. Ceyssens, L’origine du decret du SaintOffice concernant l’attrition (5 mai 1667), in Ephemerides theologicae Lovanienses, XXV (1949), pp. 83-91; per la questione dei riti cinesi, Dict. de Théol. Cath.,II, sub voce Chinois, rites, coll. 2369 ss., e in Dict. d’Hist. et de Géogr. Ecclés., XII, coll. 731 ss.; per il problema della liturgia in cinese ecc., St. Chen, Historia tentaminum Missionariorum Soc.Iesu pro liturgia Sinica in saec. XVII, Romae 1951, pp. 51 ss. e passim, ma cfr. anche la recensione di P. M. D’Elia, La lingua cinese nella liturgia e i gesuiti del sec. XVII (a proposito di un libro recente), in La Civiltà Cattolica, 1953, III, pp. 55-70.

Per i rapporti con la Francia: Ch. Gérin, Louis XIV et le SaintSiège, voll. 2, Paris 1894, passim.

Per i rapporti con la curia e la corte pontificia, I. Ciampi, Innocenzo X Pamphili e la sua corte…, Roma 1878, passim; per i rapporti col Pallavicino, I. Macchia, Relazioni fra il p. Sforza Pallavicino e F. Chigi, Torino 1907; per i rapporti con il Bona, L. Ceyssens, Le cardinal Jean Bona et le jansénisme. Autour d’une récente étude,in Benedictina, X (1953), pp. 79-119, 267-327 (ma anche in Jansenistica Minora, IV); L. J. Lekai, Pope A. VII and the cisterc. Observances, in Catholic Histor. Review, XLV (1959), pp. 1-23; per i rapporti con il Sacchetti, O. Sacchetti, Il cardinale Giulio Sacchetti, (15871663), in Studi romana, VII, 2 (1959), pp. 405-416 e M. Zucchini, Una scrittura del cardinale Giulio Sacchetti a Papa A. VII per rimettere in piedi l’arte dell’agricoltura, in Economia e Storia, IV (1957), pp. 278-282 e 282-285 (doc.).

Per qualche indicazione sulla politica finanziaria di A.: A. Serra, I riflessi della politica finanziaria di A. VII nelle monete del suo pontificato, in Studi romani, V (1957), pp. 184-188.

Per un profilo spirituale di A.: F. Callaey, La physionomie spirituelle de Fabio Chigi (Alex. VII)d’après sa correspondance avee le p. Charles d’Arenberg fr. mineur capucin, in Miscell. Giovanni Mercati, V, Città del Vaticano 1946, pp. 451-476.

Per le composizioni latine: O. Travaglini, I papi cultori della poesia, Lanciano 1887, pp. 77-80 e B. Croce, Poesia latina nel Seicento, in Nuovi saggi sulla letter. ital. del Seicento, Bari 1949, p. 148.

Per il mecenatismo artistico: L. Ozzola, L’arte alla corte di A. VII,in Arch. d. Soc. romana di storia patria, XXXI (1908), pp. 5-91; per irapporti col Bernini v. anche V. Martinelli, Capolavori noti e ignoti del Bernini: I ritratti dei Barberini, di Innocenzo X e di A. VII, in Studi romani, III (1955), pp. 51-52.

Per i rapporti eruditi, oltre Pastor, ecc., O. Fea, Miscell. stor. filologica critica e antiquaria, I, Roma 1790; per i rapporti con l’Holstenio, R. Almagià, L’opera geografica di L. Holstenio, Città del Vaticano 1942, passim; su A. bibliofilo: L. Frati, Diz. biobibliogr. dei bibliotecari e bibliofili ital., Firenze 1933, pp. 158-159; M. Parenti, Aggiunte…, I, Firenze 1957, pp. 26-27, 28-29, 253-254; in particolare per l’acquisto dei codici urbinati, v. la prefaz. di C. Stornaiolo ai Codices Urbinati graeci, Roma 1895, pp. XXXII ss.; per la costruzione e la dotazione della Biblioteca Alessandrina, E. Narducci, Notizie della Biblioteca Alessandrina, Roma 1872; per la Chigiana e i suoi più import. codici, I. Giorgi, Cenni sulla biblioteca Chigiana recentemente acquistata dallo Stato, in Rendic. d. R. Accad. dei Lincei, classe di scienze mor., stor. e filol., s. 5, XXVII (1918-19), pp. 151-156; L. P. Gachard, La bibliothèque des Princes Chigi à Rome, in Compte rendu des séances de la Commission royale d’Hist., s. 3, X (1869), Bruxelles 1869, pp. 219-244 (per i fondi documentari anche riguardanti A.); Herr v. Druffei, Die MelanchthonHandschriften der ChigiBibliothek, in Sitzungsberichte der K. Akad. der Wissenschaften tu München, philos.-philol. hist. Classe, 1876, pp. 491-527; R. Wolkan, Die Briefe des Eneas Silvius vor seiner Erhebung auf den päpstlichen Stuhl, Wien 1905.

Per la tomba di A. : E. Mâle, L’art religieux après le Concile de Trente, Paris 1932, p. 220. Si v. infine le voci del Dictionn. d’Hist. et de Géogr. Ecclés.e della Encicl. Cattolica.

 
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Ten years after the Alessandro VII Exhibition, the Sienese pope for Modern Rome, held at Palazzo Pubblico and Palazzo Chigi Zondadari in Siena, 2001, it only seemed appropriate to dedicate an article his figure who was also fundamental to the history of San Quirico and to art in general because, among other things, he was a fine collector and a great patron. In fact, before embarking on his curial journey, he obtained three degrees from the University of Siena in law, philosophy and theology, acquiring a vast knowledge that ranged from literature to philosophy, from local history to art and architecture.

Fabio Chigi seems to have been designated to be Pope even before his birth; the prophet Malachia, Bishop of Armagh, in the Prophetia Sancti Malachiae Archiepiscopi, de Summis Pontificibusfuturi ((XII century), a member of the Italian government), according to Latin tradition in which all the future popes are associated to a brief motto, defined him as “the Custodian of the Mountain” and the fact that he was born in Siena, nephew to banker Agostino Chigi (1466-1520) with six mountains on his family’s coat of arms, will later remove any doubt on the reason for his motto and on the accuracy of the Bishop’d prophecy, at least as far as this pope is concerned.

But who was really Fabio Chigi? Let’s take some time to find out because it’s worth it, with a little help from the Encyclopedia Treccani:

Giuseppe Mazzuoli, Bust of Pope Alexander VII Chigi, c. 1680, Ariccia, Palazzo Chigi

POPE ALESSANDER VII – Fabio Chigi was born in Siena on February 13, 1599, to parents Flavio, descendant of the “magnificent” Agostino, and Laura Marsili. He spent the years of his youth in Siena surrounded by intellectual fervour, training himself formally in the school of the scholar Celso Cittadini, and informally developing his artistic taste in an autodidact manner that would eventually establish himself as a man of culture, his bibliophilic habit, and his splendid patronage as pope. He moved in December 1626, after completing his legal studies, to Rome to begin his career there.

His relationship with Rota’s surroundings, his auditor and later dean Clemente Merlini, and also his ties with the Roman cultural circles, which he was soon able to dive into, earned him his 1629 Urbano VIII appointment as a referendary with Two Signatures, positioning him as deputy legator to Ferrara under Cardinal Giulio Sacchetti. Here, Chigi found himself in a lifelong friendship, one that is important for his reflections and future consequences. After five years spent with Sacchetti, Chigi did not find in his successor, Cardinal G. B. Pallotta, the same spiritual agreement that he had with Sacchetti that had introduced him into collaboration with the judiciary government, it became too much that in 1634, he had to return to Rome, where he was then ordained priest, appointed as bishop of Nardò (8 Jan. 1635) and sent to Malta as inquisitor and apostolic visitor. 

He spent another five years on the island, where he displayed good proof of his administrative and diplomatic skills, until his poor health, combined with pressures of his Roman friends, landed him his most important and demanding task (June 1639) as nuncio to Cologne, a post he arrived to in August.

Giovan Battista Gaulli. Portrait of Pope Alexander VII c. 1667, Baltimore, The Walters Art Museum

His nunciature period in Germany constituted of complex problems. He found himself facing a test of his abilities, occasions that made him not only a profound connoisseur of current political-ecclesiastical principals but also adaptive and zealous in explaining the authoritarian application of the pontifical and curial directives. He was eventually well accepted by Roman circles, by Cardinal Nepote F. Barberini and Albizzi, Councillor of the Holy Office, as well as by Pope Innocenzo X and Cardinal Spada, who favoured him the most.

It was in fact Chigi, who had an integral role to play in the Brussels nunciature affairs. First with Pauli-Stravius, but, above all, with the 1642 appointment of his nephew as an intern. In order to deal with the questions raised by the first condemnation of Augustinus by Jansenius (with the issuing of the In eminenti papal bull of 1642, that was published in 1643) and to participate in the first events of the great doctrinal and disciplinary conflict, he contributed in part with the reprinting of the Roman document sent to him by Albizzi, who had been its promoter and extender: he made some variations on the date, which he changed from the ab incarnatione style, proper or the curia, to a common nativitate one, and however, creating on the text those formal inconsistencies that had easily given rise to accusations of alteration and falsification of the bull and was exploited in subsequent altercations by the Jansenist.

Although brief, this first experience and contact with Jansenism was a deciding factor to the future orientation of the nuncio, who received suggestions and pressures from the Belgian anti-Jansenist groups, for whom he acted as an intermediate for to the curia, remaining clearly influenced by them. But was even more influenced by later, from his relations with the Jesuits, whom played a big role in his spiritual creation, especially Van der Veken who was his advisor and director of conscience for many years. From these convictions, he would eventually draw the basis of his actions as pontiff.

The urgency of the political problems on the troubled European chessboard propelled the Holy Church to appoint, on 23 December 1643, Chigi as the Extraordinary Papal Nuncio for the Münster Congress of Peace which was called the Congress of Westphalia.

A series of papal representatives preceded Chigi, from Cardinal Marzio Ginetti, sent in 1636 to the Congress of Cologne, returning after four years in disappointment of French hostility, to F.M. Machiavelli and C. Rossetti, both unsuccessful in France. If Chigi was preferred, he was a figure yet to be at the forefront of pontifical diplomacy, and if the demands of the French were met (24 January 1644) problems were far from being resolved. Chigi spent 1644 in uncertainty, after the death of Urban VIII and the election of Innocent X (15 Sept.), whom he personally did not know and was pressured by the Spanish to recall his representation. Only later, in December 1649, after the the “infamous” Münster Congress of Peace, as Chigi called it, did he have an easy time during the wearisome labours of the congress, as a mediator of peace with the Venetian ambassador A. Contarini. But Chigi’s most serious difficulties were determined, above all, by the general orientation of the Church toward the problems in the German world, an orientation that even under Innocent X continued the erroneous Barberini policies (as shown by the subsequent instructions sent to the pontifical representatives and to Chigi, substantially and often literally identical): aside from the “indifference” and neutrality between the parties in dispute, the intransigent safeguarding of Catholic interests was recommended. In this way Chigi’s work, however skilful it was, had limits. On the one hand, he had to overcome the formal and protocolar complications of the plenipotentiaries to compromise and allow the continuation of negotiations, while, on the other hand, on a political level, he had to record the most sensational of failures. Chigi found himself increasingly isolated among the highly politicized positions of both Spain and France; supporting intransigent Catholics, the Spanish ambassador, Count of Peñaranda, the Bishop of Osnabrück F. W. de Wartenberg, the Jesuit H. Wangnereck, and the”political” Catholics, inclined to greater concessions in view of conciliation, was alienated, represented by Maximilian of Bavaria and the counselors of Emperor Ferdinand III, among whom Caramuel; in the great political vacuum created in those years around the Roman Church the line he sponsored could not even benefit from the contrast between France and Sweden. Having lost all control of the situation according to the strict directives of the Holy Church, Chigi thus assisted without being able to have any influence on the complete surrender of the emperors and the stipulation of the peace treaty clauses that, with the restitutio under the conditions of 1618, sanctioned state affairs, but seriously damaged Catholic interests, consecrating the religious split, the principles of the territorial Churches, and the plundering of ecclesiastical property. He refused to sign the protocols on October 24, 1648, and officially protested against the decisions of the plenipotentiaries ten days after the congress was closed. He also ensured that the curia did not violently intervene against the decisions of peace and suggested various changes to the protest bull and disapproved with the conclusions of Westphalia as issued by Innocent X in 1651.

Gian Lorenzo Bernini, Bust of Pope Alexander VII

This period of diplomatic handling, however resulted in another important element for his life, since it contributed greatly to the alienation of his initial French sympathies (Mazzarino in 1644 had taken a few steps in Rome during the cardinalate of Chigi): the nuncio in his role as mediator had to oppose to the French demands several times and had to go through their plans to have a firm grip on the European political game between the exhausted Empire and in decline Spain, which had to, along with Mazzarino, prepare the basis to affirm the of supremacy of Louis XIV. And Mazzarino in his Instruction to the conclave after the death of Innocent X, declared French exclusivity for Chigi, could precisely be dated back to the Münster years, making sense of the French hostility against one of the most eligible candidates for the tiara (compare in Lettres du cardinai Mazarin…, edited by A. Chéruel, VI, Paris 1890, pp. 343-352: “…for the post he had in Münster, which is what made him known to us for the most incapable of all men for the government of the universal church…” etc.). It can indeed be said that his Münster period was a distant genesis to many policy orientations of A. VII towards France and of France towards the papacy.

From Münster, Chigi was sent to Aachen (Dec. 1649 – Eighth 1651) for the peace preliminaries between France and Spain that had not followed. Innocent X, who wanted to recall him to Italy in 1649, was induced by the suggestions of Cardinal Spada, a member of the more rigid cardinals and prelates of the curia, in particular on the Jansenistic question, behind which Albizzi was, to order his return and designate him as the successor of Cardinal G. G. Panciroli as State Secretary on 9 Sept. 1651. The following month Chigi returned to Rome, after spending twelve years away.

In the four years in which he remained in his new post, at the end of the Pamphilian pontificate, he was able to fit into the life of the curia and the papal court, maintaining a difficult balance in relations with the relatives of the pontiff, including Innocent’s influential sister-in-law, Olimpia Maidalchini, Cardinal Sacchetti and F. Barberini, and the Pope. As State Secretary, Chigi played a part in the special cardinal’s congregation for Jansenism, instituted by Innocent X after the denunciation of Giansemo’s work by the French bishops, a congregation that, which began on 12 April 1651, led to the creation of the Cum occasione bull of 31 May 1653 and the condemnation of the five propositions by Augustinus.

In discussions the leading role was again played by Albizzi, who had already played a large part in the elaboration of the In eminenti. Chigi, who did not have a proper theological preparation like no other present cardinal (indeed, as Pallavicino points out, who qualified for the congregation, the two theological cardinals Maculani and de Lugo, Dominican and Jesuit, were deliberately excluded from it) took part in the discussions from the XIV congregation onwards (11 Apr. 1652), alongside Albizzi, representing together a disciplinary need that was increasingly gaining ground in the theological debate. Chigi expressed this need several times outside the congregation in talks with Saint-Amour, official representative of the French bishops minority who had sided in favor of Augustinian doctrine, who feared it would be compromised by a condemnation of the work of Jansenius; and then impersonated, at the conclusion of the work of the congregation, when he took up with pontiff Albizzi’s request to issue a bull and not a simple decree and when, rejected by Innocent a first draft of the bull drawn up by Albizzi alone and presented a second (together by Chigi and Albizzi), he found himself having to overcome the Pope’s last resistance, uncertain in the face of the serious step he was about to take. Determined as he was then, in the name of the authority Holy Church in defense of orthodoxy and of the infallible judgment of the pontiff in the controversies of faith, he carriedout in persuading Innocent, an act that would have many consequences during his own pontificate.

Having become cardinal on 19 February 1652 and bishop of Imola on 13 May, Chigi saw his influence in the curia increasing in the final days of Innocent X’s pontificate after the misfortunes of the cardinal’s nephew, Pamphili (formerly Astalli), whose duties and responsibilities was then passed on to him, even though the skilful Maidalchini took up the challenge of Azzolini, who, having obtained the cardinalate in 1654, seemed destined to succeed him as State Secretary. But Innocent’s continuous illness and his death on 7 January 1655 left Chigi’s position secured for him.

The conclave, which began on 18 January, saw a fact that had not occurred in the life of the Church for many pontificates, that is, the lack of a cardinal nephew who impersonated the politics of the previous papacy and conditioned in a certain way, through adherence and ties with cardinals elected by his uncle pontiff, the election of a successor. The political colours, however, remained a traditional one: the group of Spanish cardinals was headed by the two Medici, Carlo, dean of the Holy College, and Giancarlo; the “French” group was led by R. d’Este and A. Barberini. Apart from the group of elderly cardinals, created by Urban VIII, controlled by F. Barberini, and the group of Innocentacrdinals, the “flying squadron”, which counted among others Albizzi, Azzolini and Ottoboni. The most probable candidate was, at first, Sacchetti, who, although is supported by the “French”, the “Barberinians” and the “flying”, did not reach, due to the Spanish hostility, more than thirty-six out of forty-four votes necessary for the election. Chigi, who received sympathies from various sectors, was opposed by the non-public exclusivity of Mazzarino and the hostility of the elderly cardinals, who were against a candidate that was only fifty-six years old.

The situation continued until Sacchetti, realizing that part of the votes controlled by Barberini would go to Rapaccioli, was induced to ask Mazzarino to withdraw the exclusive right for Chigi. The French response of 4 March 1655, although it did not annul the reservationsfor Chigi, allowed him to be elected on the following 7 April with twenty-five votes plus thirty-nine of accessus. He was called A.VII in memory, as he said, to the third of that name.

To examine the main events of his pontificate, we must take into account the background that was already laid out for him: trained in the diplomacy life and the curia, good executor and interpreter of those orientations and those interests deeply structured in the center of Catholicism, A. in his religious and political action lacked a strong centralizing will and aimed rather at seeing the issues as the result of discussions and advice: hence in his pontificate we saw revived the activities of the congregations, which had been dampened in the previous decades, and even the restoration of some congregations, such as those of the Visitation and of the Graces, established by Clement VIII that had been abolished; and the importance that the group of his intimate and counselors, Albizzi, Pallavicino, whom he created a cardinal, Bona, etc., assumed. This sometimes led to an oscillation and uncertainty in decision making and a certain lack of interest in the direct handling of business by the pontiff, who accentuated his love for seclusion, meditation and talks with his collaborators, an expression of a humanistic cultural taste and ascetic tendencies that acted deeply in his training. Numerous moments during his papacy that were results of a personal intervention or a suggestions of his entourage also represent nodal points in the religious, ecclesiastical, and political life of the Church in mid-17th century, such as to influence subsequent pontificates, that lasted – at least some of them – until the mid-18th century, and in any case contributed to the construction of an organised and disciplined structure of the post-Dridentine Church, which A. felt in all its complexity.

A. as a pontiff was immediately presented with the problem of Jansenism, this time going from the Netherlands to France, taking a turn for the worse.

The Cum occasione sparked a passionate discussion on the meaning that is to be attributed to the five condemned propositions and Arnauld had advanced the distinction, which had become famous, between the question of law and the question of fact, denying the presence of the five condemned propositions in Jansenism, or that they had been condemned in the sense of Jansenism, and had elaborated on the quaestio facti the theory of “respectful silence”, which is pure discipline and external obedience to the condemnation of the S. Seat, on the other hand, to the anti-Jansenists, who demanded the full acceptance and signing of faith of a formulator. Innocent X had answered with vague admonitions, but from A., who had worked so hard for the promulgation of the bull, a much more decisive intervention was to be expected.

Thus, also under pressure from Albizzi, a new document emerged, the Ad sanctam beati Petri Sedem bull of 16 October 1656 (yet had already been decided in April), in which A., confirming the Cum occasione, attested, as a speaker in the discussions on the five Jansenian propositions. The examination had been conducted with great care and declared that the condemnation of the five Augustinus propositions in a sense that understood by its author.

The renewed papal condemnation, although accepted by the Assembly of the French clergy in 1656-57, which imposed the making of a formula alongside the acceptance of the bull, not only did not resolve the situation, but aggravated it, since the discussion from the Jansenistic problem had shifted to the much wider one to the infallibility of the Church and of the pontiff in question. A. understood this and was met with irreducible opposition in the pro-Jansenist sectors and, even more so, in the Gallic sectors of the French clergy and judiciary. The Ad sanctam bull, which was not registered for this reason, acquired a value that transcends the episode from which it originated due to the various interpretation it was the objected to.

Gian Lorenzo Bernini, Bust Pope Alexander VII

Having failed all attempts at religious peace and having been pressured by King Louis, the signing of the formulano (1664) demanded A. to take on a new position. On February 15, 1665, A. issued the Regiminis apostolici bull, in which he reaffirmed the two bulls from 1653 and 1656, prescribing that all ecclesiastics should sign a formula similar in substance to one presented by the Assembly of the Clergy in 1657. The registration of the bull wanted by the king this time was unable to break off the opponents front: the resistance was impersonated by Nicole and the four bishops of Alet, Beauvais, Angers and Pamiers, who, in the violent escalation of the fact in question denied the infallibility of the Church in the matter and declared the signing of the formulatono a pure act of respect and discipline towards the affirmation of the pontiff. After condemning the Mandement of the four bishops (Jan. 18, 1667), A. decided to bring the case to trial before nine French brethren, as he had delegated.  His death, on May 22nd, cut off this last and hardest phase of the contrast. It was up to his successor, Clement IX Rospigliosi, who had been his State Secretary, to abandon the line of absolute intransigence and attempt to aim for peace with some surrender and compromise on the Holy Church’s part, culminating in the so-called Clementine Peace Treaty of 1669.

On the problem of Jansenism, the pontificate of A. ended negatively: the clear pontifical stance had not only been unable to overcome predictable resistance, but had provoked and reinvigorated the Gallican orientations of Sorbonne and the Parliament in Paris (condemned by A. in 1665 with the harsh Cum ad aures bull, inspired by Pallavicino and Albizzi), on which, against the successors of A., the absolutism of Louis XIV would have relied on. But, on the other hand, with the Regiminis apostolici, A., yielding to pressure from Louis, forgetting about Gallican claims, realized a new fact in the Church’s attitude to Jansenism and made a gesture that is of extreme importance for the future: binding himself in the fight against Jansenism to the French monarchy, after it had asserted its imperious intervention on the papacy with the political events of 1662-64 (see below), taking the initiative away from the Holy Church. Sede was surrounded by controversy, both religious and disciplinary, overcame definitively by the ecclesiastical sphere in the political sector; yet, laying the foundations for closer convergence and understanding between Rome and France on the questions regarding Jansenism, which was to become operative, after the more severe statements of the Gallican program. In the final years of Louis XIV’s reign, the scheme within which a large part of the events of the French Church ancient régime took place was configured from afar.

The Jansenist question was accompanied, during the pontificate of A., by a vast doctrinal debate in the field of moral theology, against the excesses of probabilism that spread in the Church during the first half of the seventeenth century. The onset of rigorism, as a reaction, favored also by Jansenistegian, anti-Jesuitics and, more generally, Augustinian tendencies, took the form of a clear opposition to laxity and found its way into a series of pontifical decisions in the last years of his papacy.

In 1656 A. had ordered the general chapter of the Dominicans to gather in Rome to oppose the new moral opinions (see Ceyssens, Le cardinal Jean Bona…, p. 100) and seemed oriented towards the publication of a bull against probabilism. He would be diverted from it by Pallavicino, who would persuade him not to proceed to a general condemnation, but to strike at individual lax propositions, already denounced or condemned in part by the University of Louvain and by Belgian and French bishops: hence the first decree of the Holy Office of 24 September. 1665 included twenty-eight propositions (without the names of the authors, but some by Guimenius, Caramuel, Amico) and a second on from 18 May 1666 includes other seventeen propositions (some from Sanchez and Diana), both works, as is supposed, of Bona and of the then member and soon councillor of the Holy Office, then cardinal, Casanate. A.’s condemnations foreran the one issued for another sixty-five lax propositions, in a similar way, in 1679, by Innocent XI; it is certain that in this sense they were fundamental to the efforts to elaborate moral theology during the 1600s.

Finally, two other particular documents should be mentioned, notable for their significance, which shows that A. was attentive to developments in the doctrinal debate, but, at the same time, inclined to develop those motifs of tradition that was still being discussed. The first, concerning Marian piety, was a response to Spanish pressures to define the character of the Immaculate Conception Cult. Aware of the antiquity and spread of this opinion and of its acceptability in the Catholic Church, as suggested to him also by Pallavicino, A. issued the Sollicitudo omnium Ecclesiarum bull of 8 December 1661, in which he renewed the favoured decrees of Sixtus IV, Paul V and Gregory XV, but forbade, pending a decision of the Holy Church, the blaming of those who maintained the contrary opinions for heresy or mortal sin. It is the last important pontifical act before the general prescription to celebrate the feast of the Conception in all of the Church by Clement XI (1708). Because of its disciplinary character, it dulled all discussion until the famous Muratorian controversy against the “bloody vow” that began around the middle of the 18th century.

Regarding the second document, the decree on attrition of 5 May 1667, A. responded to the controversy which broke out in the Netherlands, especially in Ghent and Louvain. It was strongly felt in ecclesiastical circles with care for the souls, about the nature of sufficient attrition for sacramental absolution. This singular document also sought the participation of Pallavicino, to whom, like the pontiff, the well-kept “contritionists” of Ghent had turned to. Personally anti-attritionist, like A. himself, were aware of the extreme spread of attritionism in Catholicism, Pallavicino, together with Bona, most probably influenced the pontifical decree of 1667, which A. signed on his deathbed. Imposing silence on the parties whom were awaiting for a decision by the Church. The document remained among the uneliminable terms of the subsequent discussions as still a century later, s. Alfonso Maria de’ Liguori had to refer to the Alexandrian decree.

The use of decrees and the activity of the Index Congregation and the Holy Office knew no pause in A.’s pontificate. For the Index A. had a new edition prepared in 1664 to complete the Clementine Index of 1596, collecting the prohibitions and condemnations of books from 1601 to 1662-63, and rearranging not only imposing materials that had accumulated as many as the consecrated norms through a long practice after the dictates of Tridentine and the instruction of Dementina. The Alexandrian Index with gradual additions had numerous editions throughout the century and beyond (although the 1681, 1683, 1685, etc. editions eventually went by Innocent XI’s name) was replaced only in 1758, under the pontificate of Benedict XIV with a new index edited by Dominican Ricchini.

The harshness of certain decisions, however, is matched with greater concessions in other sectors, especially in the missionary sector, on which A. was particularly sensitive towards, resulting in intense development during his pontificate years.

With A. the question of the Chinese rites, condemned a decade earlier by Innocent X, was regulated, at least temporarily (23 March 1656). A., unlike his predecessors, were willing to accept the Jesuit missionaries’ point of view and tolerated a broader interpretation, allowing, secundum exposita, homage to Confucius, the group with ancestors and other ceremonies to the Christians in China as an expression of a group that was only civil and political and not religious. The Alexandrian decree was accepted by the missionaries during the so-called Canton Conference in 1668: leaving open the discussion on the true character of the rites, marking a point of compromise between the opposing tendencies and gave rise, despite the 13 November 1669 Clement IX Decree, which confirmed the two previous documents in some way discordant, to further discussions, reopening violently under Innocent XII and Clement XI, especially in the first decade of the ‘700. Yet in the Far East, the decisions taken with by pontificate of A. to create a missionary hierarchy (1658), sending three French apostolic vicars, breaking the Portuguese monopoly in the sector, was extremely significant for the future, since it proposed in concrete terms the possibility of training an indigenous clergy, which until then had remained purely theoretical.

This possibility brought into discussion an important question, already debated under Paul V, whose memory had long been lost, that is the use of Chinese and other oriental languages in the liturgy and calling for the translations of Scripture. With the Romanae sedis antistes privilege of 27 June 1615 Paul V had allowed this: but the privilege had not been implemented because of the lack of an indigenous clergy. A., ignoring the decision of his predecessor, because new situation have been brought forward that raised the problem, entrusted a special congregation to it, and personally showed himself to be favourably disposed with a January 12, 1661 brief although it was then severely damaged by the French translation of the Missal (of the Voisin), any possible translation into European languages of the liturgical texts and of Scripture. If the papal orientation found a consensus in the congregation between Albrizzi, Allacci, Rancati and a possible openness on the half of Albizzi, the majority were against and found any sort of decision immature. A. accepted the negative opinion of the congregation, but with the Super Cathedram brief of September 9, 1659 he dispensed for seven-year period, then continuously renewed, the indigenous missionaries where the Reading Uffizi in Latin was replaced by prayers in Chinese, and temporarily limiting question that like others, will be reopened later.

Gian Lorenzo Bernini, Tomb of Alexander VII, Vatican

Some intrinsic weaknesses of the A.’s pontificate can be seen outside the ecclesiastical action and politics, in which, if different pressures were being exerted according to the curia tendencies on the pontiff (such as the interventions brought forward by Pallavicino and Albizzi on their fight against Jansenism and Gallicanism, or those of Bona and Casanate on their condemnation of laxity), it was possible to outline an orientation not devoid of coherence, energy, and a constant need to intervene and to respond to the major questions with an authoritarian vocation that in A… for most part was accompanied with a search for harmony and balance between the curial parties, which were subsequently the expression of broader discussions in the Catholic world. In strict political action, this can be summarised into their relations with France, displaying the limits as well as the personality of an entire historical moment of the Church.

Reference is to be made to Mazzarino’s enmity towards A. as it should be acknowledged that the hostility was motivated by French political attitude to strive for impartiality and was interpreted as pro-Spanish (and of barely veiled pro-Spanish sympathies one must speak for A., which followed the political line of Innocent X), at first was articulated around the case of the cardinal of Retz, the great political enemy of Mazzarino, who after long and complicated negotiations was deprived of the archbishopric of Paris and, albeit saving the principle of ecclesiastical immunity, sacrificing himself to the resentment of the powerful minister (1662). But A. aggravated the feud with France when, worried about the protraction of the Franco-Spanish war, he wanted to act as mediator between the contenders, with a brief address to the Assembly of the Clergy in 1655-56. Hoping for prompt pacification, had blamed the attempts that the two kingdoms were making to enter into an alliance with Cromwell. The papal intervention not only did not prevent France from achieving its intent, but pushed Mazzarino to react and lay the foundations for wider contrasts with Rome, in two different fronts: in France itself on the level of ecclesiastical politics, when he in anti-papal function began to soften and develop around the Jansenistic trunk of the Gallican motives, and in Italy, where he was able to skillfully blow on the fire of the claims of Parma and Modena against the Holy Church for the questions of Castro and Comacchio.

The stipulation, without the Pope’s knowledge, of the Peace Treaty of the Pyrenees between France and Spain (Nov. 7, 1659), with clauses imposed by Mazzarino on the claims of the Dukes of Parma and Modena against the Pope, and the delay in communication to the Holy Church (Jan. 11, 1660) sanctioned the political decline of the papacy, of which A. had been a direct witness to in Münster.

A. responded to the French pressure on Parma by forfeiting Castro in the Consistory of 20 December. 1660; but he found new obstacles in his policy towards France because despite concessions and surrenders on his part especially in terms of the supply of the bishoprics, it was a time of increased Turkish pressure in the Balkans that was contributing to the detriment of the Empire. He set out with commitment to organise a Catholic league, resuming a program outlined in 1657 to help Venice, to which he had sent the papal fleet and from which in return he had obtained the return of the Jesuits after fifty years of exile from the time of the Interdict. The papal aspiration then clashed with Louis XIV’s ambitions on German soil, where the French plans were used to weaken the Empire and therefore the maintenance of the Turkish weight on the eastern borders. Both the extraordinary French envoy from Aubeville and Minister Créqui, who arrived in Rome in 1662 for the stipulation of a league with no intention to conclude, deliberately compromised the negotiations and, at the same time, compromised the relations between France and Rome. The incident of 20 August 1662, perpetuated by the papal guard against staffs of the French embassy, in an already tense atmosphere already, determined with the explosion of a matter of prestige, the violent reaction of France, which cost A. a series of serious humiliations.

A. found himself isolated: neither the Empire nor Spain, engaged in the war against Portugal, could intervene; the demeanor of the Italian states were guarded and ambiguous, if not hostile like Modena and Parma. Usurped Avignon and the county came from France and voted to pressure Louis XIV by the six Sorbonne articles of 1663 Gallic, A. did not remain, in the face of an armed threat, bent with the Pisa Treaty of 12 February 1664 where he disenfranchised Castro, granting an extension of eight years to the Duke of Parma, and paid Comacchio an indemnity to the Duke of Modena, thus creating a more solid basis for French influence in Italy; he was forced to make other gestures of reparation, erecting a pyramid with an infamous inscription for Corsi at the conflict zone and sending his nephew Cardinal Flavio Chigi to France for a formal apology. He could only express his protest in a bull that had remained secret.

The episode presumed in general European events with singular meaning and importance. Europe, overwhelmed by the political and spiritual schemes and dimensions created by the religious wars consolidated in France, after long crises, the last being those of the Fronda, monarchic absolutism, had its various power balances which characterised the first half of the 1600’s over and allowed the Church to exercise its traditional mediator function, to safeguard its own spiritual and political interests; it had moved in favour of France and already brought with it bitter fruits just as A. had collected during the Peace Treaty of Westphalia. The ambivalence inherent in the pontiff’s own personality also played a decisive role in the change of the balance of power, rigid in the defense of principles and, at the same time, linked to a school of high diplomacy rather than true political intuition, incapable to immediately elaborate new perspectives and lines of pontifical politics and to fully insert itself in the new European political phase, and brought, by character and long custom, to caution and to those orientations of compromise that, faced with decisive affirmations of power, could not help but be resolved in the most complete compliance. For the Holy Church, and to the character of A., an epoch – not without crisis – was really coming to an end and a phase of alternating contrasts with France began that will last until the end of the century.

In internal politics, in the government of the Papal State, we can trace trends similar with those we have already seen. Here, if ever, is a greater emphasis on the pontiff in making use of the collaborators in charge of the various congregations: thus Cardinal G. Rospigliosi, who had foreign affairs in his hands, was called to the secretariat of the State Congregation, which was instituted by Urban VIII and had already been governed by Panciroli and by Chigi himself, thus assumed the physiognomy that remained in the following centuries; Cardinal Corrado datano presided over the Congregation of Immunity; Sacchetti continued to have importance in various congregations and his contribution to that of Abundance was remarkable, around 1656, after the plague that had devastated Rome and the Campaign, causing serious damage to agriculture, was in decline due to diminished workforce. Some weight in the life of the curia and the State also presumed in the lives of the closest relatives of the pope. Only a year after his assumption into the papacy A. resolved into bring his relatives to Rome, after which it seemed appropriate not to abandon a tradition that was also important for its political repercussions. A.’s brother, Mario, was superintendent of the Annona and judge of Borgo; his nephew Flavius became Cardinal Nepote and obtained ecclesiastical incomes that reached 100,000 scudi; his nephew Augustine received splendid possessions, a Roman palace and married a Borghese. But these and others, such as A. Bichi, who was greatly benefited, while perpetuating nepotism in the papal court, had little influence on the pontiff, not even comparable to the times of Barberini or even came close to those of Innocent X.

Where A. left a deep mark was in the reforms of the curia offices of which he had directly been able to ascertain the venality and abuses, under the papacy of Pamphili. He reorganized the chancellery, collected the Regulae, ordinationes et constitutiones cancellariae Apostolicae, Romae 1655, and issued dispositions for the prelate career that gave it its modern form.

He also tried, among his main internal policy measures, to resolve in some ways the serious financial situation that had started in the state since early seventeenth century, due to the decline of agriculture, rigid annual system, decrease of public income and the frightening increase of debt that the sumptuous and expensive policy of Barberini had accentuated.

Following Innocent X, A. found forty-eight million scudi in total of debt, for loans and interest payments that absorbed most of the revenue. He clearly saw the impossibility of further increase in the already heavy taxes, so it was resolved, apart from the attempts to have a more rigorous economy, for an important financial reform by reducing the interest of the “upstream places”, which were the centre of the pontifical financial system. He redeemed the vacant ones and reimbursed, without taking into account the quotations, the nominal value of those that could not be vacated, certainly realizing a considerable profit; but the measure shook the credit on which the system was based on and caused a decrease in the value of the places. The profit was soon swallowed up by the expenses of the administration, by the building constructions, to which A. gave a great increase, and above all by the fact that obviously the old economic system remained standing. On the contrary, A. continued the practice of his predecessors and, in his search for new assets for the state coffers, increased the tax on ground coffee, created a tobacco patent and contract (1655 and 1665) and maintained the annonary system, refusing to take into consideration the liberalization of the grain routes that Sacchetti suggested to him as a remedy to the serious agriculture and trade crisis in the state. The public debt increased, so much so that by 1670, three years after the death of A., it had risen to fifty-two million.

He had been in poor health since his youth and suffered from a kidney stone disease (and was therefore also operated on while he was nuncio to Cologne). A. worsened during 1666 and he died on 22 May 1667.

A.’s profile would not be complete if we did not give a final nod to what has been called his spiritual physiognomy and if we did not try to outline another essential aspect of his personality. Alongside the organizational and disciplinary component, more evident and more fully expressed in those years of doctrinal and political struggles, we must see in A. the resonance of late humanism, relived more than in the Oratian custom of composing Latin verses attitudes, in his artistic patronage, in scholarly relations and in his bibliophilia. If the external history of these attitudes of A. is known at least in its broad lines, very little is known of his internal one, due to the limited attention paid so far to his vast private correspondence, papers, and personal notes. Of A.’s Latin compositions, we shall briefly say: the Philomathi Musae iuveniles, Coloniae Ubiorum 1645, Antverpiae 1654, Parisiis 1656, Amstelaedami 1660, are, despite the finesse of the literary imitation that covers numerous biographical cues, little more than the delight of a cultured spirit, which even in the hardest moments, especially during his German stay, loved to take refuge in those “carmina animo deducta sereno”. The artistic patronage of A., which came to take the form of a real urban renewal of some areas in Rome: the Bernini construction of the colonnade of St. Peter, the work in the interior of the basilica, the construction of the royal staircase in the Vatican, the Mint, a part of the Archive, the enlargement of the Quirinal, whose gallery was laid out by Pietro da Cortona frescoes on the squares of the Pantheon and Minerva, in which the Bernini obelisk of the elephant was erected, the opening of Via del Corso, the arrangement of Sapienza, where the library that he called Alessandrina (1667) was built, etc.. 

He was also sumptuously sovereign, shown in the welcome he gave to Christine of Sweden (1655) and intelligent patron in the love for culture and books and in the protection granted to scholars and artists, in years perhaps among the richest of the seventeenth-century Roman scholarship, which saw together the Allacci, Holstenio, Kircher, Ughelli, Giano Nicio Eritreo, Pallavicino, not to mention, among the artists, Bernini. Holstenio A. was entrusted with the task of transferring to the Vatican Library (1657) the codices of Urbino, which were disputed, after the death of the last duke Francesco Maria II della Rovere, between the community of Urbino and the confraternity of the Holy Crucifix of the Grotto: and the purchase suggested to A. by cardinal legate Luigi Omodei prevented them from being dispersed. But A. devoted careful attention above all to his personal library, whose purchases seems to often obey a pre-arranged scheme: so he made a choice between the Sienese manuscripts of the libraries of Pius II and Pius III Piccolomini, he obtained codes from the libraries of two Sienese whom writers his friends, Celso Cittadini, who was, as we have seen, his teacher, and Federico Ubaldini; and other codexes which he bought in Germany, such as the important originals of the letters of Melanchthon, and some bought in France. Much remains to be studied, as there is still no precise research on the formation of the library through the interests of A. and his handwriting placed on numerous manuscripts, notes, letters, etc.. Only a timid start was given when Chigiana was purchased by the Italian state in 1918 and then donated to the Vatican Library in 1922.

This fervour for culture, on the other hand, was harmoniously grafted into the vein of an authentic piety, nourished in A. by the daily meditation of the Introduction à la vie dèvote or Philothée of Francis de Sales, which he beatified in 1661 and canonized in 1665. Already in a well-known letter, also spread in French translation, directed while he was nuncio in Cologne, on April 1, 1642, to his nephew A. Bichi, A. recommended as a prototype of spiritual life (deeply conducive to his aristocratic spirit) the teaching of Philotée: “Il ne vous persuade point l’austerité, ny la solitude des déserts, ny un genre de vie extraordinaire; mais une dévotion civile, noble, et temperée…”, (in appendix. to La bonne philosophie…, Paris 1658); and he recalled it as an example, now twenty years old, to his personal search for Christian perfection. As far as we know A. divulged in various works, which appeared anonymous, the main themes of Salesian piety and humanism is devoted and imprinted here and there (but also to Jesuit spirituality for the explicit memory of Realino and Coster) such as the brochure La bonne philosophie et l’art de salut ou Institution de vivre parfaitement comprise en trois preceptes, par N. S. P. le Pape Alexandre VII, Et traduit de Latin en François par F.Martial Religieux Penitent du tiers Ordre de S. François, in Paris 1658, where an art of well dying is juxtaposed in fourteen meditations (the bonne philosophie) and an art of well living outlined in three precepts that trace the “three ways” of purgative, enlightening and unitive.

The meditation on death seems to have been a reason for the baroque piety strongly present in the soul of A., who always loved to keep on his table, as a pontiff, a marble skull sculpted by Bernini. Bernini then gave, in an admirable way, artistic form to that baroque triumph of death constituted by the sepulchre of A. in S. Pietro, which marks a turning point in the funeral iconography of the 1600s (see Mâle).

The precepts of L’ari de salut indicate in a balanced way the duties of Christian living: the ascetic-penitential ones (daily meditation, contrition of sins) and the devotional ones (the reading of the devoted books, the frequent communion, the devotion to the Virgin and to the guardian Angel are characteristic) are accentuated. The final part, on conformity to the divine will, leads us back to other references expressed in correspondence with the Capuchin Charles of Arenberg (1642-52), analysed by Callaey, in which the reason for submission to the will of God finds perfect correspondence to that of obedience in the Roman Church. This relationship, if deepened by further research, would perhaps be worthwhile in showing the reason behind so much of A.’s organisational and disciplinaries, a deeper inspiration and presence of a conception of the Church in its spiritual richness.

Bibliography: Tra le fonti, un diario di A. degli anni di Münster (1644-45) che è stato pubblicato dal Kybal, e tra gli Inediti, nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Fondo Chigi, O. IV, 58, un altro diario che inizia con l’agosto 1655; ancora nel Fondo Chigi, A. I. 8, diari del periodo da Colonia al pontificato; la corrispondenza, e due serie di mss. sempre nel Fondo Chigi riguardanti gli anni di pontificato, la prima, in nove volumi, di Scritture diverse concernenti molti e importanti negozi religiosi e politici del tempo di A. VII, e, la seconda, in quindici volumi, di Proposte e risposte di cifre in copia, dei nunzi apostolici, dei cardinali legati, di governatori e arcivescovi.

Per indicazioni sulla corrispondenza di A. e su altro materiale, estratti di lettere, ecc., v. Archivalia in Italia, a cura di G. Brom, II, Rome. Vaticaansche Bibliotheek, in Riìks Geschiedkundige Publicatiën, kleine serie 9, s-Gravenhage 1911, nn. 252, 272, 349, 351, 352; III, Rome. Ovenige Bibliotheken en Archieven, ibid., kleine serie 14, ibid. 1914, passim, e Bescheiden in Italië, a cura di O. I. Hoogewerff, III, ibid., kleine serie 17, ibid. 1917, passim. Ampio materiale ms. e archivistico utilizza L. v. Pastor, Storia dei Papi, XIV, 1, Roma 1932, pp. 311-538 (ma v. anche L. v. Ranke, Storia dei Papi, Firenze 1959, pp. 839 ss. e pp. 913 ss., note). In corso di pubblicazione La nunziatura di Fabio Chigi (1640–1651), a cura di V. Kybal e O. Incisa della Rocchetta, I, 1e 2, Roma 1943-46 (giunta finora al 1645); edito il carteggio con F. Barberini, F. Albizzi, Van der Veken e altri riguardante il giansenismo nei Paesi Bassi, La correspondance antijanséniste de Fabio Chigi nonce à Cologne plus tard pape A. VII, a cura di A. Legrand e L. Ceyssens, Bruxellee-Rome 1957 (con Bibl.); edito e regestato il carteggio con lo Stravius in Correspondance de Richard Pauli–Stravius (1634–42), a cura di W. Brulez, Bruxelles-Rome 1955, passim ; della corrispondenza sporadiche indicazioni dà I. Ciampi, L’epistolario inedito di Fabio Chigi, poi papa A. VII, in Atti d. R. Acc. dei Lincei, Mem. della classe di scienze mor. stor. e filol., s. 3, I (1876-77), pp. 393-403; del carteggio con i Merlini dà notizia e pubblica parti A. Piccolomini, Carteggio inedito di Fabio Chigi, poi papa A. VII, in Bullett. senese di storia patria, XV (1908), pp. 3-31. Manca una monografia moderna su A.: fondamentale resta la biografia che di A. tracciò P. Sforza Pallavicino, Della vita di A. VII libri cinque…, voll. 2, Prato 1839-40. In particolare: per l’attività politica v.: A. v. Reumont, Fabio Chigi – Papst Alexander VII –in Deutschland (1639–1651), in Zeitschrift des Aachener Geschichtsvereins, VII (1885), pp. 1-48; L. Schiavi, La mediazione di Roma e di Venezia nel Congresso di Münster per la pace di Vestphalia…, Bologna 1923; I. I. Poelhekke, De vrede van Münster,’s-Gravenhage 1948, passim; K. Repgen, Fabio Chigis Instruktion für den Westfälischen Friedenskongress. Ein Beitrag zum kurialen Instruktionswesen im Dreissigjährigen Knieg, in Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte, XLVIII (1953), pp. 79-104 e 104-116 (docc.); Id., Der päpstliche Protest gegen den Westfälischen Frieden und die Friedenspolirik Urbans VIII, in Histonisches Jahrbuch, LXXV (1956), pp. 94-122; H. Bücker, Der Nuntius Fabio Chigi (Papst Alexander VII) in Münster 1644–1649, nach seinen Briefen,Tagebüchern und Gedichten, Münster 1958 (con bibl.).

Per i problemi politico-religiosi: la lotta contro il giansenismo: oltre le lettere pubblicate ne La correspondance antijanséniste, cit., sono essenziali per l’inizio della vicenda e notizie sulla posizione di A. due documenti contemporanei, il Journal de Mr. de Saint Amour… de ce qui s’est fait à Rome dans l’affaire des Cinq Propositions, s. l. 1662, passim e la relazione dell’Albizzi edita da A. Schill, Die officielle Relation des römischen Officiums über die Verurtheilung des Jansenismus, in Der Katholik, LXIII (1883), II, pp. 282-299, 363-381, 472-494; per un orientamento sugli avvenimenti successivi cfr. la voce Jansénisme (di I. Carreyre) in Dict. de Théol. Cath.,VIII, coll. 504-520; A. Gits, La foi ecclésiastique aux faits dogmatiques dans la théologie moderne, Louvain 1940, pp. 7-9 e passim, e L. Ceyssens, La publication, aux Pays–Bas,de la troisiéme bulle contre Jansénius (1656–1660), in Rev. d’Hist. ecclés., LIV, 1 (1959), pp. 478-506, 807-837 (seguita), in part. le pp. 478-487.

Per queste e per le altre questioni religioso-ecclesiastiche del pontificato di A., discussioni, condanne, ecc., un buon panorama offrono Fr. H. Reusch, Der Index der verbotenen Bücher, II, Bonn 1885, passim e I. v. Döllinger-Fr. H. Reusch, Geschichte der Moralstreitigkeiten in der römisch–katholischen Kirche… I, Nördlingen 1889, passim. In particolare: per la bolla sul culto dell’Immacolata, R. Laurentin, L’action du Saint–Siège par rapport au problème de l’Immaculée, in Virgo Immaculata, II, Roma 1956, pp. 1-99; per il decreto sull’attrizione, L. Ceyssens, L’origine du decret du Saint–Office concernant l’attrition (5 mai 1667), in Ephemerides theologicae Lovanienses, XXV (1949), pp. 83-91; per la questione dei riti cinesi, Dict. de Théol. Cath.,II, sub voce Chinois, rites, coll. 2369 ss., e in Dict. d’Hist. et de Géogr. Ecclés., XII, coll. 731 ss.; per il problema della liturgia in cinese ecc., St. Chen, Historia tentaminum Missionariorum Soc.Iesu pro liturgia Sinica in saec. XVII, Romae 1951, pp. 51 ss. e passim, ma cfr. anche la recensione di P. M. D’Elia, La lingua cinese nella liturgia e i gesuiti del sec. XVII (a proposito di un libro recente), in La Civiltà Cattolica, 1953, III, pp. 55-70.

Per i rapporti con la Francia: Ch. Gérin, Louis XIV et le Saint–Siège, voll. 2, Paris 1894, passim.

Per i rapporti con la curia e la corte pontificia, I. Ciampi, Innocenzo X Pamphili e la sua corte…, Roma 1878, passim; per i rapporti col Pallavicino, I. Macchia, Relazioni fra il p. Sforza Pallavicino e F. Chigi, Torino 1907; per i rapporti con il Bona, L. Ceyssens, Le cardinal Jean Bona et le jansénisme. Autour d’une récente étude,in Benedictina, X (1953), pp. 79-119, 267-327 (ma anche in Jansenistica Minora, IV); L. J. Lekai, Pope A. VII and the cisterc. Observances, in Catholic Histor. Review, XLV (1959), pp. 1-23; per i rapporti con il Sacchetti, O. Sacchetti, Il cardinale Giulio Sacchetti, (1587–1663), in Studi romana, VII, 2 (1959), pp. 405-416 e M. Zucchini, Una scrittura del cardinale Giulio Sacchetti a Papa A. VII per rimettere in piedi l’arte dell’agricoltura, in Economia e Storia, IV (1957), pp. 278-282 e 282-285 (doc.).

Per qualche indicazione sulla politica finanziaria di A.: A. Serra, I riflessi della politica finanziaria di A. VII nelle monete del suo pontificato, in Studi romani, V (1957), pp. 184-188.

Per un profilo spirituale di A.: F. Callaey, La physionomie spirituelle de Fabio Chigi (Alex. VII)d’après sa correspondance avee le p. Charles d’Arenberg fr. mineur capucin, in Miscell. Giovanni Mercati, V, Città del Vaticano 1946, pp. 451-476.

Per le composizioni latine: O. Travaglini, I papi cultori della poesia, Lanciano 1887, pp. 77-80 e B. Croce, Poesia latina nel Seicento, in Nuovi saggi sulla letter. ital. del Seicento, Bari 1949, p. 148.

Per il mecenatismo artistico: L. Ozzola, L’arte alla corte di A. VII,in Arch. d. Soc. romana di storia patria, XXXI (1908), pp. 5-91; per irapporti col Bernini v. anche V. Martinelli, Capolavori noti e ignoti del Bernini: I ritratti dei Barberini, di Innocenzo X e di A. VII, in Studi romani, III (1955), pp. 51-52.

Per i rapporti eruditi, oltre Pastor, ecc., O. Fea, Miscell. stor. filologica critica e antiquaria, I, Roma 1790; per i rapporti con l’Holstenio, R. Almagià, L’opera geografica di L. Holstenio, Città del Vaticano 1942, passim; su A. bibliofilo: L. Frati, Diz. bio–bibliogr. dei bibliotecari e bibliofili ital., Firenze 1933, pp. 158-159; M. Parenti, Aggiunte…, I, Firenze 1957, pp. 26-27, 28-29, 253-254; in particolare per l’acquisto dei codici urbinati, v. la prefaz. di C. Stornaiolo ai Codices Urbinati graeci, Roma 1895, pp. XXXII ss.; per la costruzione e la dotazione della Biblioteca Alessandrina, E. Narducci, Notizie della Biblioteca Alessandrina, Roma 1872; per la Chigiana e i suoi più import. codici, I. Giorgi, Cenni sulla biblioteca Chigiana recentemente acquistata dallo Stato, in Rendic. d. R. Accad. dei Lincei, classe di scienze mor., stor. e filol., s. 5, XXVII (1918-19), pp. 151-156; L. P. Gachard, La bibliothèque des Princes Chigi à Rome, in Compte rendu des séances de la Commission royale d’Hist., s. 3, X (1869), Bruxelles 1869, pp. 219-244 (per i fondi documentari anche riguardanti A.); Herr v. Druffei, Die Melanchthon–Handschriften der Chigi–Bibliothek, in Sitzungsberichte der K. Akad. der Wissenschaften tu München, philos.-philol. hist. Classe, 1876, pp. 491-527; R. Wolkan, Die Briefe des Eneas Silvius vor seiner Erhebung auf den päpstlichen Stuhl, Wien 1905.

Per la tomba di A. : E. Mâle, L’art religieux après le Concile de Trente, Paris 1932, p. 220. Si v. infine le voci del Dictionn. d’Hist. et de Géogr. Ecclés.e della Encicl. Cattolica.